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diario

 

La morte di Bibi

 

 

 

Credevo

 

 

Credevo

 

Credevo ancora sabato scorso, tre giorni orsono, che per Bibì il mio piccolino, il mio adorato, ci fosse davanti tutto un idillio da vivere e di cui scrivere, tra lui e la canarina bianca che ho consentito che mia madre gli immettesse in gabbia: or invece c'è sola la sua agonia di cui piangere e vivere lo strazio, a meno che il miracolo accada di cui ho invocato il Divino, cui ho chinato la fronte e l'orgoglio, purchè Che è vita della vita, Creatore di ogni creatura, dia ancora un'esistenza a quel mio povero, piccolo essere, allo stremo di ogni suo residuo di vita in fondo alla gabbia.

Sono ora accorso di là, ed ho dovuto districarlo da una foglia di radicchio il cui intrico l'ha ribaltato, lui che era la mia freccia d'amore nel suo piccolo regno, fulmineo in volo alla prima avvisaglia.

" Che posso farci, è così la vita, piccolino" gli ho mormorato.

E dire che incanto, solo domenica mattina, l' altro ieri, era vederne le testoline accostate sui posatoi, lei che già nel suo materno femminino l' imboccava devota.

Che dolcezza, anche così, mi ispira il suo corpicino reclino in un angolo, il suo occhio che mi fissa dal suo spossamento nel suo stupore perenne, nel suo adattarsi anche a questo stato presente.

Finchè sarà uno stato presente...

Dopo che avevo versato le mie lacrime nell' accompagnarlo dal veterinario, sul pullmino del centro nello sconforto più irrefrenabile, sotto una pioggia che sollevava correnti e infradiciava il trasporto, ieri sera quando lo credevo già al termine, non avevo che ululati di dolore, alla vista atroce della mostruosità che l'aveva reso il collasso, della pena del suo respiro dal fondo della gabbia da cui era incapace di sollevare anche gli arti, mentre lei, la canarina incantevole, nel suo ammanto bianco sfumato di rosa, indifferente sul posatoio più alto si riassettava la sua le piume nella sua pienezza di vita.

Ho allora invocato la Divinità, l' ho intercessa per la mia creatura amata, di un miracolo per il mio piccolo essere, supplicandola di salvarlo, che avrei celebrato e celebrerò la sua gloria a rigraziamento perenne.

L'avevo innanzi tratto dall' impasto delle sue carni con il pastone e i semi del fondo che ne avevano infradiciato le piume, le sue nude carni ne erano intrise, e in un disperato rischio, avevo schiuso il suo becco divenutone avido come un poppante, finalmente, al liquido che doveva salvaguadarne le resistenze del cuore.

E con le piume stese nell' estremo atto di dispiegamento e di resa delle sue forze, si era volto disteso contro le pareti della gabbia, gli occhi due turgori che socchiudevano un dolore cieco, il respiro che gli protendeva il becco aperto nell' esalare quello che ritenevo l'ultimo anelito.

Ed io, oltre la parete di plastica del fondo, mi illudevo di giungere a confortarlo, nel dirlo ancora mio, per sempre:

" Sappi che Tu sei sempre il mio Bibì, e che Tu lo sarai sempre per me, ricordalo..."

E poco a poco, dopo la mia invocazione, il mio appello a Dio, lui ha ripreso meravigliosamente ad intendere, a vedersi intorno, si è rialzato, come risorto, una voracità momentanea l'ha reso ghiotto, ed egli ha tentato con successo ancora un volo, sul posatoio dell' acqua che avevo ribassato!

La crisi si è ripetuta più breve, sotto controllo, stamane nella stanzetta del veterinario, quando gli ha somministrato di nuovo quella soluzione con una siringa, dopo l'iniezione nel suo povero petto di glucosio e vitamine.

Eccola, la manifestazione di disapnea, ora si è ripreso, il peggio è passato, può riportarlo con sè".

Ma io voglio credere e credo sia solo un miracolo, per il tramite di in un atto di fede che mi vincoli per sempre, perchè solo un miracolo potrebbe salvarlo, il mio uccellino, nello sforzo di somministrargli più risorse di quante fatalmente ogni giorno ne perda...

" Oggi è già molto più magro di ieri, mi faceva osservare stamane il veterinario, lo si avverte anche solo nel toccarne lo sterno"

Quando questo pomeriggio sono tornato, per introdurre dal becco all' uccellino antibiotici, sostanze proteiche, " comunque quant' abbiamo fatto è servito, mi ha detto, perchè avrà potuto gustarsi qualche seme di più".

A casa, questa sera, oramai questa notte, nella sua crisi d' inedia pressocchè permanente, che non gli consente nè di giacere nè di stare eretto senza un supporto, il mio poverino nei suoi soprassalti di vitalità si è avventato sui grani, in una fame impotente, senza più poterli per lo più nemmeno raggiugere, solo beccare, poi sui pezzi di mela che ha invece divorato con un' ultima avidità vorace, quando l'ho poggiato sul posatoio della mangiatoia sul fondo, per finire più ancora debilitato dallo sforzo, di quanto la mela o i semi non potessero sostentarlo.

L' avergli consentito ancora questa soddisfazione, é stato l' unico conforto/ lenitivo al mio senso di colpa, alla disperazione senz'appello che le mie mani inette siano state mani di morte per le mie creature più care, che la mia premura riguardosa così maniacale, sia stata di un' idiozia imperdonabile di fronte alle evidenze che eludevo o tacitavo, credendo che fosse vero ciò speravo- non lo so, adesso, perchè come uccellino aveva smesso del tutto di cantare?- mentre di fronte a ciò che implorava la mia spossatezza, il sentimento di una mia inutile sofferenza per seguitarlo a fare vivere talmente soffrendo, del conflitto tra le cure che gli devo e gli obblighi civili che devo riassumere, al cospetto di un mondo che non può intendere le mie leggi del cuore, pregavo Dio, lo supplicavo, di dare retta a cio che gli chiedevano le mie parole, non già la mia volontà, vacillante e debole come l'esiguità vitale del mio canarino.

Dopo averlo inutilmente sforzato, rialzato, chi è ancora il mio uccellino, anche perchè ha ancora la vitalità di mordermi se lo prendo in mano, l'ho posto in ombra perchè in una posa che comunque ne eviti la soffocazione, trovi almeno un pò di riposo notturno.

E torno, e ritorno nell' ombra in cui, mentre vengo scrivendo, consultando le sole penne della sua coda eretta, intorno al culetto, per accertare, in una pena ch' èp un rimorso ad ogni suo battito vitale, se muovendole il respiro egli ancora vive.

 

 

La pena ch' è valsa

 

Ieri mattina, lui ancora vita, non avrei potuto comunque ritornare a scuola, e lasciarlo così fatalmente morire, al vederlo senza più ancuna capacità di reggersi, riverso al fondo tra le sementi con il pancino zampettante.

Ho così compreso, nell' assecondarne gli sforzi, che lui stesso vi si lasciava cadere in mezzo, rovistando con il becco, nel rigirarsi dui lato, perchè solo così, con il becco di lato, poteva ghermire frenetico dei semi, mentre l' inerzia di ogni sussulto di vitalità, come lo rimettevo in piedi, lo portava a cadere oltre le mangiatoie della mela o del pastoncino che intendeva raggiungere, per finire contro le pareti della gabbia, contro le quali addossava la gola, per reggersi, ergendo il becco del suo musetto ancora così bello, quei suoi occhiolini che si interrogavano, che seguitavano a guardarmi fissi.

Ugualmente tutta la notte, quando mi risvegliavo e da lui riaccorrevo nel sonno, mi riannunciava ch'era ancora vivo il tremito della sua codina,il sussulto ritmico del suo dorso ch'era così bello di piume, mentre il suo visino era pressocchè invisibile, riverso in prossimità del fondo senza toccarlo, gli occhi schiusi da un dormiveglia incessante.

Come potevo sacrificarlo inesorabilmente al rispetto degli uomini, delle loro leggi, nel tornare ad adempiere il mio dovere scolatico, tormentato com'ero e sono tutt'ora, implacabilmente come è giusto che sia, dal rimorso del mio senso di colpa per averlo lasciato giungere a tale stremo fatale di deperimento organico, di come l' ultimo giorno della sua vita abbandonai a se stesso l' altro mio caro, Bibò indimenticabile, per essere a scuola in un giorno di scioperi studenteschi.

Ma l'indomani, se ancora vivesse, e l'altro giorno ancora, e con quali giustificazioni mediche?

Rivolto al telefono al veterinario ammirevole, dopo un primo diniego di mia madre a venirmi in soccorso, ad assistere l'animaletto mio caro in mia assenza scolastica, " sono rassegnato, oramai, solo ciò che non è naturale può ancora salvarlo, è per pietà, per senso di colpa, che la prego di aiutarmi ad assisterlo, se può, trattenendolo in ambulatorio mentre sono a scuola".

E quell' uomo meraviglioso aveva già consentito a lasciarmi le chiavi d'accesso all' atrio del suo ambulatorio, perchè gli recassi l' esserino mio amato in gabbia prima di recarmi a scuola, in mattinata, quando è sopraggiunta la telefonata di mia madre, che fino a sabatoi mi ha assicurato che sarebbe potuta rimanere presso di me fino a sabato, in quanto che mia sorella l' avrebbe liberata nel frattempo dell' onere del cane.

Quando il pomeriggio con il mio mesto uccellino riposto nel suo bagnetto quale un letticiolo, sono stato di ritorno dal veterinario, le somministrazioni sono parse talmente ravvivarlo, renderlo così vorace nel suo misero capino della mela, del pastoncino su cui lo sopraelevavamo, che insieme alla perdita degli arti egli ha potuto constare eppure un recupero confortante di reattività, talmente tanta, in quel piccolo essere adorato che io avevo perduto con le cure maniacali del mio stesso affetto timoroso di tutto, era la volontà di essere e di vivere che si dibatteva in fondo alla gabbia, che zampettava riversa tra i posatoi che non riusciva a raggiungere, seguitava con il becco anche nel sonno, a becchettare semi solo immaginari.

Contro un nemico ugualmente immaginario, ora ricordo, in mattinata, nel dormiveglia, a un certo punto l'aveva dibattuto feroce, appuntato alle pareti di plastica del fondo della gabbia.

Ma come lo prendevo in mano, lo ripulivo, lo baciavo nel suo calore residuo e lo fissavo in quegli occhiolini spenti di ogni luce recente, diventavo io con mia gioia il suo nemico reale, il nemico di tutto il suo odio, giustamente, talmente mi beccava con accanimento, per averlo con il mio amore metifico ridotto a quello strazio.

Quel suo odio, quella sua voracità, era ancora vita, speranza residua, che risorgeva con la fede e la volontà di lottare, mentre attendevo in serata l'arrivo di mia madre.

E quando è giunta ho cercato di darle forza a sostenere l' immane , mostrandole ogni reazione residua di vitalità dell' animaletto, nell' anelito di alimentarsi dei pezzettini di mela, che irroravo di vitamine, di antibiuotico,,  come dopo lo sforzo il sonno in cui cadeva gli conszentisse di addormirsi, di giacere ancora bello come il mio bambino amato, nella culla in cui lo mettevo a riposo.

Purtroppo ha voluto assistere a come diventasse orrifdo,sottoposto allo sforzo estremo di deglutire un sorso d'acqua. fino al dieci nel misurino del livello, che gli ho iniettato nel becco con una siringa.

" Oh, non credevo , mi ha detto, di poter vedere un esserino cosi piccolo soffrire tanto... Ne vale forse la pena di insistere...

Se lo valeva!

Cosi tra me pensando per coinvolgerla nella mia tensione, vedendo l' uccellino nel sonno dibatterere il becco, riaversi, l'ho preso sopra la mela per sostenere ancora nella debilitazione estrema.

Nello sforzo cui l' ho atrocemente sottoposto l'animaletto mio ha porto il becco, e in quel medesimo istante ho sentito la vita in lui cessare, che non c'era più.

Ogni battito,il tremore immpressionate delle penne, come la luce allo spengimento di un interruttore, all' istante era finito del tutto.

Del mio " querido" non c'era più niente, non era più niente.

Quel capino adorato che penzolava inerte da ogni parte, senza più offrire resistenza alla visione del guasto del male tra le sue piume, che ne lasciava atrocemente allo scoperto la indecenza della gola nuda, della pellicina dilacerata ch'era tutta la sua carnagione residua, tesa dallo sterno acuminatosi sporgente, era

quanto ho baciato e ribaciato prima di riporlo in quel bagnetto-letticiolo divenuta la sua bara, nel freezer dove ora giace insieme a Bibò.

In un flacone di gocce che ho diluito nell' acqua ho soffocato l'espressione e rinnegato l' espressione del mio pianto di fronte a mia madre, divenutami un' intrusa tra quelle pareti che non richiedevano alcun suo compito in soccorso del mio canarino, che mi offrivano il conforto stomachevole della vita bella che riprende nei suoi gusti e sapori, nella prelibatezza di altre carni che mi sfamavano.

 

 

Ne è valsa, ne è valsa la pena

 

Quando mi ha rivisto questo pomeriggio nella saletta d'aspetto dell' ambulatorio, e ha guardato a me attorno, e non ha visto alcuna gabbia sulle sedie accanto, ed io ho allargato le braccia vuote e ho recilnato il capo di lato, il veterinario ha capito tutto e si è dispiaciuto.

" Ne è valsa, ne è valsa la pena" con me ha comunque ribadito:

Perchè voleva ancora vivere e per questo faceva di tutto, l'animaletto, e pertanto occorreva e si è fatto di tutto.

E prima, da parte mia? Ma se avessi potuto trovare un vetertinario in cui riporre la fiducia, come in lui...

No, che non mi abbattessi, che non mi sconfortassi di avere delle mani datrici di morte agli animali.

Potevo riprovare con un gatto, senza più tra me e l'animale la barriera della gabbia.

E la mente, che ancora non si capacità della realtà delle voliere vuote- con mia madre la canarina ha fatto ritorno dal suo venditore, unma canarina che potrebbe essere stata l' animale- killer delmio uccellino,esasperandone lo stresso o quale portatrice sana di un virus letale-, ora corre al sogno impossibile, irrealizzato, di portare i miei uccellini in riva al fiume, per lasciarli liberi di immergersi in volo nel suo regno canoro.

Certo, tra la sua erbetta fresca, una gatta potrebbe essere lasciata andare, beata, libera di scorrazzarvi e rotolarsi nel voluttuoso verde.

Stamane a scuola l'ho detto solo a quella mia collega che mi ha chiesto perchè fossi così mesto e privo di luce.

Sono stato risollevato felice dall' apparire e l'essere tale, come pegno di espiazione, parzialissima, della mia cura letale del mio uccellino defunto, " negli atti d'allegrezza spenti".

Al mio rientro a casa, mia madre credeva di confortarmi, quando nel complimentarsi del mio interno domestico mi ha detto che non mi manca niente.

" Non mi manca niente?" le ho soggiunto a denti stretti.

Mi è stata invece di conforto quando mi ha stretto le mani, che si erano uirrigite in un moto di disperata ribellione, nell' avvertire che nella sua gabbia di lui era rimasto solo l'odorino delizioso.

E nello scrivere da cui ora desisto, si è svenato ogni senso della realtà irrimediabile nel farne il referto.

IO prego solo Dio, Ciò che mi volgo per amore del mio piccolino amatissimo ad adorare e servire, prima di arrendermi allo stordimento di una fiala amarognola,  che per quanto ho amato quel poverino infelice malcapitato nelle mie mani di morte, lo umanizzi in un'anima, in essa lo trasmigri e gli dia vita eterna, perchè possa perdonarmi di tutto , e in un'altra vita, dove e come non so, il suo capino mi si inoltri verso a cinguettarmi " ho inteso capito, hai scontato, il male che mi hai reso è tutto finito".

 

 

 

 

 

A Francisco Sanchez del Rio

 

                                        Mantova, 28 settembre 99

    Caro Francisco                       

 

    ti scrivo dall' Italia, mio caro amico, distrutto dalla morte del mio canarino adorato, quel piccolo infinito bene del mio miserevole amore, quel poverino, infelice, malcapitato nelle mie stupide mani di morte, che quanto più credevano di curarlo, di assisterlo, tanto più invece lo hanno lasciato precipitare nel suo deperimento atroce.

Quanto ha sofferto, quanto ha lottato inutilmente per vivere, nel suo minuscolo essere ch' era così incantevole in volo, sui posatoi, e che io ho debilitato a non potersi nemmeno più risollevare dal fondo della gabbia!

Poverino, poverino, poverino....lui che dicevo il sovrano, il piccolo principe della mia casa!

Ora la mia solitudine vi è sovrana, la mia incapacità di convivere lasciando vivere.

Quanto alle cose che ti invio, non occorrono miei commenti e tuoi ringraziamenti.

Ti prego soltanto di fornirmi le referenze del libro in spagnolo di Abd al-Salam al-'Ugiayli, di eventuali traduzioni nella tua lingua delle poesie di Abou Nawas, di Abu al-'Ala al-Ma'ari.

Quanto alla Siria, ora è un sole morto precipitato distante, non so più dove...

Nel tuo Paradiso, c'è mai una vita eterna anche per loro, per il mio canarino Bibì?               

                                      Con affetto e sconforto

                                          

                                       Odorico Bergamaschi

 

 

A Francisco Sanchez del Rio

 

                                        Mantova, 28 settembre 99

    Caro Francisco                       

 

    ti scrivo dall' Italia, mio caro amico, distrutto dalla morte del mio canarino adorato, quel piccolo infinito bene del mio miserevole amore, quel poverino, infelice, malcapitato nelle mie stupide mani di morte, che quanto più credevano di curarlo, di assisterlo, tanto più invece lo hanno lasciato precipitare nel suo deperimento atroce.

Quanto ha sofferto, quanto ha lottato inutilmente per vivere, nel suo minuscolo essere ch' era così incantevole in volo, sui posatoi, e che io, nelle più mie stolide cure, ho debilitato a non potersi nemmeno più risollevare dal fondo della gabbia!

Poverino, poverino, poverino....lui che dicevo il sovrano, il piccolo principe della mia casa!

Ora la mia solitudine vi è sovrana, la mia incapacità di convivere lasciando vivere.

Quanto alle cose che ti invio, non occorrono miei commenti e tuoi ringraziamenti.

Ti prego soltanto di fornirmi le referenze del libro in spagnolo di Abd al-Salam al-'Ugiayli, di eventuali traduzioni nella tua lingua delle poesie di Abou Nawas, di Abu al-'Ala al-Ma'ari.

Quanto alla Siria, ora è un sole morto precipitato distante, non so più dove...

Nel tuo Paradiso, c'è mai una vita eterna anche per loro, per il mio canarino Bibì?               

                                      Con affetto e sconforto

                                         

                                       Odorico Bergamaschi

 

 

 

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