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 In Eran, Udayapur

 

 

 

 

Mentr'io io indugiavo in stanza nell'hotel di Bina, a Kailash non occorreva molto, nella prima mattinata, per trovare un conducente di autorickshaw che per un ammontare conveniente di rupie fosse disponibile a condurci ad Eran e ad Udaypur. Si trattava di un giovane e di un suo amico, un ragazzo ch'era al suo seguito come apprendista. Sul loro tuk tuk ci avventuravamo verso Eran per una presunta scorciatoia tra le distese di stoppie dei campi assolati, non senza prima esserci riforniti di acqua e di vivande frugali. Era così  eluso il villaggio ferroviario di Mandibamora, che era lo snodo imprescindibile per giungere ad  Eran secondo le indicazioni raccolte, e ci inoltravamo  per delle stradicciole che si facevano sentieri, tratturi campestri, il cui dissesto rendeva interminabile il loro percorso. Finalmente in  lontananza, alla nostra sinistra, oltre la vastità dei campi spogli, l'occhio acuto di Kailash intravedeva un'alta colonna nel folto di un addensarsi d'alberi. I ragazzi e i contadini che il giovane conducente ed il suo amico seguitavano a contattare per strada, insicuri del cammino intrapreso, confermavano che eravamo in prossimità delle rovine di Eran, del cui villaggio intravedevamo solo qualche casolare, prima di pervenire al sito archeologico. Intorno la quiete e la placida distesa di coltivi e pendii e boschivi, tra cui fluiva il fiume Bina che si avvistava appena, eretto a presidio dei suoi insediamenti fin dai tempi del Neolitico e del calcolitico, lontano da qualsiasi traffico urbano convulso in cui la mia immaginazione aveva fantasticato fossero disperse le giacenze di Eran, alla  sola vista, in una loro immagine, di un edificio in calcestruzzo e dell'apparenza di un campo da gioco sullo sfondo. Le rovine apparivano invece raccolte tutte insieme dentro un recinto assolutamente isolato tra i campi dintorno,

 

 in cui due alte colonne  precedevano i reperti di statue e templi più rilevanti.

 

 La più alta delle due colonne era un monolito di arenaria convertito in monumento sotto l'imperatore Budha Gupta (che regnò tra il 476 ed il 495 dopo Cristo) dai fratelli  Matri Vishnu e Dhanya Vishnu, nel 484-485 della nostra era, come indicava un'iscrizione al di sopra del plinto.

 

 Essa vi era definita "dhvajastambha", ossia pennone della bandiera di Vishnu, e  vi risultava eretta  al divino Janardana per incrementare i meriti  religiosi di genitori ed avoli dei devoti fratelli vishniti.Quadrata alla base, su di un piedistallo, si faceva ottagonale fino all'altezza del capitello, a forma di campana scanalata con coronamento  anulare. Esso era  sovrastato da più abachi, nell'ultimo dei quali due leoni contrapposti apparivano scolpiti su ogni faccia. Sulla sommità campeggiava eretto un uomo bifacciale circondato da un alone.

 

Il più giovane dei due fratelli che eressero tale pilastro, Dhanya Vishnu, in seguito era stato il committente anche del tempio Gupta che si stagliava più oltre, a sinistra, e di cui non restava più che la colossale statua di Varaha, l'incarnazione in forma di cinghiale di Vishnu, che nei miti puranici entra nelle acque primordiali e  vi salva la dea della Terra dagli inferi.

 

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Varaha vi era raffigurato zoomorficamente come Yaina- Varaha, una denominazione che associa le parti del corpo dell'animale alle componenti del Yaina, o sacrificio vedico. Tale icona statuaria era presente anche nella vicina Badoh Patari, da cui  venne trasferita nel museo di Gwalior, ed a non grande distanza è tuttora attestata anche tra le rovine dell'antica Dudhai, una delle capitali  dei Chandella  posteriore nel tempo di mezzo millennio. In onore del cinghiale divino nelle sue sembianze di Yaina-Varaha essi eressero nella loro capitale religiosa di Khajuraho anche il tempietto, con una sua mirabile raffigurazione scultorea, che è contiguo al tempio Lakshmana. Ampia diffusione, nelle nicchie delle proiezioni parietali dei templi, ebbe  pure la  raffigurazione antropomorfa dell'incarnazione vishnuita come Nri-Varaha, che a relativa distanza da Eran ricorre in un suo magnifico prototipo esemplare rupestre in Udayagiri, vicino a Vidisha.

In quanto Yaina- Varaha, già in Eran il dio era raffigurato in guise sarvadevamaya, ossia  appariva composto di tutte le divinità del pantheon hindu, che vi figuravano come arricciature del pelo o individuabili nelle cavità delle orecchie, nella cintura o sul suo capo,

 

 mentre Bhumi, la dea della terra, effigiata in dimensioni  maggiori, era addossata alla sua gola ed alla sua spalla destra,  gli occhi racchiusi in gratitudine perenne.

 

 

 Di lato, alla sinistra del divino cinghiale, stavano i resti significativi di un tempio gemino d'epoca Gupta.

 

 

 

Lo costituivano il  portico d'accesso ed una cella dalla copertura piatta di cui non restava che il portale, oltre il quale era visibile una statua grandiosa di Vishnu.

 

Le colonne esterne del portico presentavano un basamento in cui si succedevano le modanature proprie della vedhibanda- khura, kumbha,  kalasa, kapota- cui  era sovrapposta una nicchia con un'immagine interna.

 

L'interposizione, in un blocco di raccordo, del vaso della prosperità di una  ghata  pallava, o purna khumba, precedeva la sfaccettatura del fusto, su cui  ricadevano i festoni con campane del motivo delle gantha-mala. La cordonatura superiore di una calotta, soggiaceva aduna replica della ghata-pallava, sormontata da una mensola con spiccanti rilievi di foglie.

 

Nei pilastri interni alla replica del vaso della prosperità facevano invece seguito serti da cui, a rivestire abaco e mensola superne, tracimavano le volute vegetali e gli ardha-padma di semicorolle di loto, il fiore di cui la festonatura inghirlandava dei petali.

 

 

Del portale ammalorato e malamente ricomposto era particolarmente pregevole la soglia dell'udumbara,

dove sopra una pitha con rilievi di petali di loto, la padma patra, nella  mandaraka centrale  il rigoglio di un  fiore di loto promanava meravigliosamente  nella schiusa del bocciolo- La affiancavano ai lati due mascheroni che germinavano viluppi di foglie

 

 cui  subentravano nelle prominenze. dei kinnaras, mitici esseri semiuomini e semi uccelli,  intricati anch'essi in viluppi vegetali.

Oltre la soglia, ove la radiosità solare era subentrata all'antica penombra degli interni, Vishnu appariva nella imponenza della sua rigidità corporea, la alleviava  il  rivestimento di una dhoti,  mentre il suo busto era alonato di uno scudo ed una spada ne armava il braccio.

 

.Sulla destra, di ritorno verso l'entrata, erano accampate quattro colonne superstiti del tempio Gupta di Narashima.

 

 Come nel templi Gupta  17 di Sanchi ed in quello di Tigawa, nel distretto di Jabalpur, l'intercolumnio tra le colonne centrali era minore di quello tra le precedenti e quelle laterali, in una fine variazione ritmica.

 

 Le colonne, di grande bellezza,

 

 presentavano in forme naturalistiche più traboccanti  di quelle del tempio precedente le catene di campane tra due vasi dell'abbondanza,

 

 ne arricchivano la profusione un disco scanalato successivo,

 

 poi un abaco di kirtimukkas . Sono essi  i mostri dal volto leonino, eruttanti festoni, la cui apertura delle fauci simboleggia la bocca della "luce del mondo" da cui esce questa vita e in cui se ne rientra, e che può rivelarsi la porta della liberazione o le mascelle della morte ( si veda di  R. Guenon, in tal senso,  La scienza sacra, alla pagina 319 dell'edizione italiana).   Dai kirtimukkas fluivano festoni retti agli angoli da vidyadharas, un ulteriore disco orlato di foglie inverse, soggiacente ad  un dado esagonale adornato del motivo di ghirlande e foglie cuoriformi, cui era sovrapposta  un abaco adorno di cespi di foglie e di ardha-padma, di fiori di loto dimidiati.

 

 

 

 Ma nemmeno a tal punto finiva originariamente lo svolgimento ornamentale dei pilastri, perchè atterrato ai piedi  di quelli terminali, era possibile vedere qual era il loro risvolto superiore,  la cornice flessa di una kapota, con archi-chaitya carenati in cui erano cerchiate effigie di volti, che fungeva da supporto ad un blocco rientrante di cui ogni faccia era  risolta in due leoni  agli angoli che  opponevano i dorsi, fra i quali era pur anche interposto un alberello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il pozzo di un baoli che non era quello risalente al calcolitico, che ricercavo,  dei pilastri commemorativi della autoimmolazione sul rogo della sati di vedove,  

 per una porta in rovina di mura antecedenti precedevano l' ingresso nel sito del villaggio, intanto che dal cielo annuvolatosi iniziava a piovere. Esso si disvelava  disposto sui rilievi circostanti una convalle, in casolari che apparivano alle loro sommità,

 

 

 finché sulla sinistra  si infittivano le dimore lungo delle strade tornanti, preludendo ad un loro più ampio dispiegamento lungo il versante opposto.

 

 

 

 

 

 

 

 Lasciavamo quindi Eran sotto una pioggia intermittente, lungo la via principale d'accesso che recava a Mandibamora, di una lungaggine che non era compensata dallo stato del fondo, la sua incrostazione si faceva infatti sempre più dissestata, sotto la pioggia che a un certo punto diveniva scrosciante, obbligando il conducente a integrare la calotta dell'autoricksaw con dei teli. Cessava di lì a poco la pioggia ma non il deterioramento del manto stradale, che diveniva rovinoso all'ingresso in Mandibamora, dove trovavamo sbarrato il passaggio a livello ferroviario.

Ai nostri giovani conducenti il protrarsi della sosta forniva l'occasione per  chiedere  ragguagli al guidatore di un autobus, su quale fosse la via migliore per raggiungere Udayapur.

Non avevamo nemmeno da traversare il passaggio a livello quando fosse stato riaperto, bastava riavviarci, facendo retromarcia, verso la strada asfaltata, scorrevole, che si dipartiva alla sinistra di quella che avevamo appena lasciato provenendo da Eran.

Restavano da percorrere poco più di venti  chilometri di rettilineo asfaltato, tra l'aperta campagna in cui il cielo si schiariva fino al limitare dei monti che si profilavano all'orizzonte, un agevole tragitto dopo il travaglio precedente che per  i nostri giovani conducenti diveniva una tentazione irresistibile a sfrenarsi a tutta velocità, inducendo Kailash a richiamarli bruscamente ad una guida più prudente.

Incrociavamo una strada sulla sinistra che Kailash mi avvertiva che conduceva a Patari Badodh, di cui  ravvisavo in lontananza l'altura sovrastante, mentre  si profilava sempre più ravvicinato il rilievo dal profilo bizzarro ai piedi del quale, tra il folto dei coltivi,  anni addietro a me ed a Kailash già  era apparso sorgere l'abitato di Udaypur.

 

 All'arrivo, il  fulgore del l'arenaria rossa del sikkara e della mole del tempio emanava nel tramonto bagliori di fuoco,

 

  sovrastando le povere parvenze del bazar del villaggio. Ma solo oltre la cinta muraria se ne ravvisava l'impianto grandioso,

 

in cui il sikkara  riconduceva alla  nuclearità fondamentale della cella  sottostante, del garbaghiha, i tre portali d'accesso allla sala del mandapa  di raccordo, che convogliavano verso il santuario chi vi conveniva.

Il tempio, attorniato da otto tempietti minori,

 

 

 appariva ulteriormente sopraelevato su di una piattaforma, cui accedevamo da una serie di scalini fiancheggiata da grandi statue di custodi delle porte shivaiti.

Nel tempio, che risaliva ai sovrani Paramara dai quali era stato edificato tra il 1059 ed  il 1080, come in una sorta di gotico fiorito indiano tutto si faceva flamboyant, rispetto all'equilibrio di forza e di grazia dei templi Pratihara e Chandella antecedenti, a cui, in dilungamenti, assottigliature e inflessioni più accentuate di figure e inarcature, vi era subentrata un' eleganza sottile  delle forme scultoree ed architettoniche. La sua stilizzazione delle costolature delle proiezioni in fasce di festoni salienti di gioielli le impreziosiva nelle guise di nervature di rilievi ornamentali,

 

 

cosicché sul senso grandioso e possente della simbolizzazione di una montagna cosmica delle forme del tempio hindu  cui, per fare un sublime esempio, alludono i karna ed uro-manjari dei mini-sikkara dei templi di Khajuraho,

 

 addossati come balze alterne al grembo del sikkara madre del tempio trasfigurato nel  monte Meru, o  Kailasha, asse del mondo e dimora divina,

 

 o l'ascesa e ridiscesa sempre più in alto dei picchi sommitali delle sovrastruzioni delle sale templari,

 

 

 

 

nel tempio di Udayapur prevaleva l'  evocazione simbolica dello  scrigno sacro dell' embrione del mondo, di cui i  sikkaras minori configuravano le filiere delle granulazioni splendide, ogni piccolo sikkara un castone ed una gemma.

 

 

 

 

 La consueta scansione dell'elevazione del tempio nelle varie rathas delle sue proiezioni, - una centrale, il badhra, le rathas ad esso laterali, o prati-rathas, non che quelle agli angoli, o karnas, - vi  assumeva la configurazione di una circolarità radiale saptarathas, ossia di sette proiezioni posteriori e replicate ai lati. Il  rivestimento in reticoli di archi carenati onnipervasivi della generalità dei templi antecedenti  sopravviveva soltanto nel risalto centrale che nel fulgore del sikkara era conferito alla  magnificenza di una ratha tripartita, per ognuna delle quattro direzioni. Strette ed ed allungate, tali rathas erano fregiate dall'antefissa di grandiosi sukanasika shivaiti. Essa era protesa verso il culmine  tra i filari di  sette sringas o sikkaras miniaturizzate, in corrispondenza delle proiezioni del muro della jangha

 

Ognuno di essi erano coronato dalle anularità scanalate di amalakas, e si alternava al restringimento della  cordonatura unitiva in edicole intermedie, fregiate di rombi e dei frontoncini di udgamas. Chandrika, amalaka e vijapuraka superiori, oltre il collo della greva, nelle loro scannellature erano prefigurate da una  cornice a zig zag stellare, che nella sua acuzie angolare rimarcava in conclusione la natura preminentemente ornamentale dei rilievi architettonici del tempio.

 

Sovrastava  il mandapa, a comporne il tetto samvarana, secondo la tradizione già invalsa in  vari templi Chandella di Khajuraho,  lungo la diagonale di ogni direzione trasversale la successione di kutas, torrette a guisa di sommità di picchi in miniatura, coronate da campane sormontate a loro volta da amalakas.

 

Scendendo nei dettagli, potevo  rilevare che nel basamento, o adhisthana,

 

 

 

 

 

 ad un primo corso  piatto faceva seguito una jadhya kumba decorata dei fregi di ghirlande e fiori similari a quelli di una pushpa mala, e dell'incisione di una padma- patra di petali di loto nella sua curvatura superiore, la sormontavano  una kapota ornamentata di un fregio di rombi e rosette e di  takarikas carenate,  una karnika dal profilo tagliente e fregiata di  gagasrakas ,  una grasa pattika di kirtimukkas assai stilizzati, una pattika con i motivi ornamentali di archi-chaitya carenati e di rombi floreali.

 

Seguivano i  balconi all'altezza dei portali,

 

 

 

 

 

 

 

 

ornati di  raja sena, vedika con celestiali apsaras alternate a pilastrini fregiati di vasi della prosperità tracimanti foglie, asana pattha, degli schienali posteriori reclini dei kakshasana.

 

 

 

 

 

 

 Da ogni  kashasana si elevavano a loro volta semicolonne e semipilastri interni, a supporto dei tetti.

 

 Le sfaccettature delle semicolonne erano fregiate da cordoni di campane fuoriuscenti da kirtmukkas,  sovrastava questi ultimi una banda di vidyadharas angelici senza soluzione di continuità nel susseguirsi dei loro corpi, su cui si ergevano fregi triangolari. Sopra il successivo capitello circolare, forgiato come un vaso cordonato,  ricorreva una mensola di atlanti, cui  corrispondeva una consimile console sopra i pilastri interni.

 

 

 Lungo le pareti restanti e sottostanti, al balcone faceva  seguito alla stessa altezza la successione di modanature della vedibandha,

 

 

 in cui alla khura di raccordo, decorata con rombi floreali, si susseguivano in verticale, ad ogni rientranza e proiezione, una jadhya kumbha, contraddistinta da una proiezione mediana orizzontale, la madhya bandha, che intersecava una nicchia coronata di un ugdama carenato e conclusa con un fregio di foglie di loto, una kalasa orlata di  gagarakas, due recessi intervallati da una affilata karnika, le modanature di  kapotas e pattikas, in alternanza, fino al piedistallo della statua di un dio in ogni nicchia e rientranza,. Era essa affiancata all'esterno da singole immagini di ulteriori divinità e di ninfe apsaras, duplicate nei recessi da consimili beltà terrene, il cui incanto era esaltato da mirabili volute vegetali sovrastanti.

 

Le statue erano comprese tra colonne festonate ed un torana sovrastante, il quale appariva affiancato da due edicole che includevano un rombo e  presentavano una copertura di ripiani di pidhas,

 

 

 

 

 

 

( - Di tali torana si è rilevata la ricorrenza similare nel tempio Javari in Khajuraho , solo che esso vi è riservataosolo ai dikpalas, gli dei vedici guardiani delle otto direzioni, e a limitare ulteriormente il risalto di tale concomitanza, va ad aggiungersi che tale festonatura  onoraria  era un motivo quantomai diffuso, - ricorre anche nei tempietti dei dasavatars delle dieci incarnazioni di Vishnu della vicina  Patari o in quelli più negletti di Naresar, presso Gwalior, inoltre figurano differenze stilistiche significative nei due fastigi  di torana di statue, essendo ben più inflesso, in più curvature, il torana nel tempio di Udayapur).

Oltre la nicchia la proiezione si assottigliava in pilastro, la cui superficie immediatamente superiore era fregiata dalla catena che reggeva una campana di una gantha mala, fuoriuscente immancabilmente dalle fauci di un kirtimukka. Esso era scolpito nelle testate di una tula-pitha,  cui subentravano rientranze e sporgenze ad ogni modanatura seguente,  tale profluvio mirabilmente profilato era concluso solo dalla cornice di una chhadya  fregiata da lumas, una fascia di pendenti simili a piccoli vasi, e poneva alfine un  termine alla decorazione della parete della jangha con una pushpa mala fregiata di fiori e ghirlande.

 

 

 

La varandika che intercorreva tra la parete e le sovrastruzioni alleviava la soluzione di continuità della cornice interponendo solo le fasce piatte di due pattikas, di cui pur si contrapponevano i fregi sovrastanti di takarikas e quelli sottostanti  di gagarakas.

 

Vi si sopraelevavano alfine  il sikkara, sul santuario del garbhagriha, e il phamsana piramidale sulla sala -mandapa, rivestito delle sue miniature frattali  in forma di kuthas,

 

 

secondo quanto era già stato focalizzato. Nei magnifici sukanasa il dio che campeggiava in una nicchia centrale,

 

 

affiancata da edicole laterali popolate anch'esse di presenze divine, vi  era compreso tra delle colonnine ed un torana come le divinità nelle edicole della jangha, lo sovrastava, in dimensioni  minori, un dio ch'era  nell'occhio del vortice di un magnifico gavaksha, l'"arco di sole" che fuoriusciva a sua volta dalle fauci di un kirtimukka.

Dei portali restava solo il tempo di ammirare la fascia degli stipiti il cui fasto era una colonna fregiata a spirale floreale, la sthamba-saka,

 

prima di addentrarci nella magnificenza solenne delle ombrosità sacrali del mandapa che adduceva al garbhagriha, la cella della cavità uterina in cui Shiva si manifestava come il germe del mondo.

 

 

La sera stava oramai calando mentre uscivamo dal tempio. Stando agli accordi, i conducenti dell'autorickshaw avrebbero dovuto lasciarci in Udayapur, ed io e Kailash saremmo dovuti rientrare a Bina in autobus. Ma l'ora già tarda, e l'opportunità di fare di nuovo ricorso ai due giovani,  suggerivano a Kailash di ricontattarli e di chiedere a loro di rientrare insieme in Bina per duecento rupie in più. Detto, fatto. In Bina, dopo aver cercato senza soddisfazione per le vie disastrose periferiche del centro-città  una sistemazione migliore in un altro albergo,   invece che l' hotel  ci limitavamo più sensatamente a cambiare solo la camera,  lasciando per la stanza contigua quella che dava sulla strada rumorosa in direzione di Sagar,

Un sonno non perturbato era indifferibile per entrambi, alla vigilia della partenza da Bina per Gwalior, dove mi ripromettevo di essere di ritorno a Padhavali, Batheshwar, Mitaoli,  ma prima ancora di ritrovare e di visitare  i templi che mi restavano ancora sconosciuti della valle di Naresar.

 

 

 

 

 

 

 

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