Lettere dalla provincia,

seconda versione

    EPISTOLE DALLA  PROVINCIA

"alfine qui giunto, ..."

V. A., padrone ed amico,  

alfine qui giunto, or sono due mesi, solo di una cosa io ora ti prego: se a me, uomo sempre e comunque di ascendenza servile, eppure è lecito formularTi un voto,  esaudisci questa mia unica supplica: e fa ch'io resti, ora e per sempre, in questa remota terra della più remota delle Province; poiché  qui ove le nebbie non diradano mai, e la notte si confonde col giorno,  è nell' internarmi nelle tenebre di ogni luce del mondo, che alfine ho riattinto l'Anima; sicché ora più non vago perduto nel lusso, privo di tutto il superfluo fuorché di me stesso.

Lasciami dunque qui intento, fra i pochi volumi ch eserbo appresso ed i soli negozi della tenuta dei fondi, confinatovi nel più felice degli esilii, se nulla di esteriore qui è una tentazione ad evadere dai territori dell'anima, - e questi indigeni, facili e brutali, sono un perpetuo monito che non c'è che l'onta da acquisire, se si perde la propria dignità nel commercio dei corpi; laddove, nella Capitale, quei corpi e quelle menti erano un'illusione perpetua nella loro squisitezza.

Ed ora che una vampa più esangue contrasta le tenebre, il mio pensiero  ti lascia memore per l'ombre ed i sogni,  riattendendo in un domani, da Roma e dai vivi, la sola reale consolazione (il solo reale conforto) della tua parola. 

 

 

"Un'infinita inedia "

 

A  V., mio amico e signore,

fraternamente ti sono grato di come pur sollecitandomi ad un ritorno, eppure tu non ti opponga alla mia permanenza in queste regioni.

Tu mi scrivi che non ti sorprende che ora mi prostri l'acedia .

" Il tuo volto era velato già in Roma. L'esercizio delle tue forze ti era evidentemente divenuto una fatica immane. Già tu avevi perduto il gusto dell'agire e dell'ottenere, e la riflessione aveva debilitato ogni tua energia pratica."

Vivamente mi esorti, pertanto, a ritornare comunque a Roma:

"gli affari del Foro e gli antichi piaceri ti guariranno".

Caro amico, e signore,  troppo sono per me solide le tue ragioni concrete.

Or io che sono ellenico,  nel mio retaggio, come ellenico non posso essere che un uomo che medita, ossia chi per il volgo è un uomo malato.

Tu ben sai, ch'eppure ho tentato di agire nel mondo, e come nei vicoli, e nello splendore palatino, vi abbia ricercato la turpitudine nell' eleganza.

Ed in ciò, non mi sei stato soltanto  al fianco.

Così quando cercavi di decifrare il corso degli eventi imperiali, a che soggiaccia l'agire di un imperatore e dei suoi nemici, è a me che ti sei rivolto come interprete.

Ma l'agire mi ha smascherato la mia debolezza infinita, e come per godere io abbia consentito l'abuso della mia persona,   il tradimento di me stesso essendo divenuto la mia abitudine di vita quotidiana.

Pertanto se ora mi preservo confinato fra queste nevi, è altresì per non soggiacere più al modo in cui un tempo anche tu mi usasti.

No, non ti muovo rimprovero di questo, tu mi fosti parimenti fatale e caro, ed io non posso per questo biasimarti, se ero  io stesso che in te ricercavo lo sfogo agognato di una crudeltà tremenda infinita.

Ma la mia Anima, troppo feritasi, non può più soggiacere alla sua natura servile, e le è divenuta  insostenibile la ferocia che appetiva.

Questo è quanto mi rimane da dirti, diacciato nel candore delle nevi intorno silente, quale nella sua beatitudine la divinità indifferente.

 

 

"Sacerdos "

 

A V.

 Di che dubiti? Le notizie che mi hai recato mi hanno comunque interessato, e nello scrivermi di nuovo, mi sarai oltremodo prezioso se mi informerai dei casi ulteriori di Roma.

Perché il mio esilio, in questa valle di tenebre, è pur sempre un sottostare al mondo e l' onorarne le leggi.

Che il senato non sia più che un vocio di bocche, e che il Principe si renda tanto più amabile quanto più avvilisce mordace ogni altro potere, Egli irresponsabile di ogni offesa che reca, è nel corso delle cose naturali.

Roma ha il volto spietato ed ilare di ogni potenza. E l' arroganza dei suoi ventriloqui del popolo, allorché nel fiutarne gli umori più fetidi, ne trae profitto prosternando  chi ancora ha altezza d'ingegno per resistere a loro, non è che un'altra guisa dell' indifferenza della Natura per le nostre fortune.

Ed in quanto sono del Portico, debbo dunque accondiscendere a Roma con l'ardore medesimo del mio amore del fato, onorarne la violenza e la corruzione, come onoro la terra e lo sterco che la rende fertile.

Ma di ogni potenza, recita il corso degli astri, prima o poi esiste una morte. E per quanto i traffici ed il lusso mi inebriassero l'Anima nella capitale, io nella frenesia del Foro, e nel clamore dei trionfi,  il fiato del successo lo sentivo come un alitare putrido.

No, non è immortale la forza che si celebra nel bronzo.

E se mi chiedi che cosa di perenne pur avvivi nella sua vigoria ( pur arda nella sua vampa), io ti rispondo che  del seme eterno che ancora vi germoglia dello spirito ellenico, è quanto non abita le sole contrade della carne e del sangue.

Le nevi ora quivi si disciolgono alla primavera incipiente, e la mia anima vive il fervore delle erbe e dei fiori che intorno rinascono, nello scorrere delle acque e delle nubi traendo il proprio respiro

E così quietato ti saluto, per i campi sacerdote floreale di Venere celeste.

    

 

Inseguo nei miei sogni una candida cerva, diamantata sul petto, che in un' interminabile selva interminabilmente recede...

E stillano sangue fra l'erbe i suoi passi leggiadri..

In rubini che si cristallizzano, nel gorgheggio di voci tra alberi dintorno spogli di vita. 

 

 

Il distacco

 

Diletto A. V.,

 

nella tua ultima lettera, or ora giunta, tu mi manifesti di non intendere, ancora appieno, le ragioni del mio distacco da Roma.

Mio caro, se in Roma è il farsi plebe che necessita, e la turpitudine è il prezzo di ogni umano commercio, se l'udienza del mondo vi è la perdita della voce dell'Anima, che tutto questo vi avvenga, purché senza di me.

Io non condanno la gente nuova e l'antico Senato, gli atti di sangue per i nuovi e gli antichi simulacri, per più ancora denaro o ciò ch'è soltanto memoria nel tempo; ma io che non sono carne della vostra carne, io non so più essere precettore, od istrione, in una capitale dove a maggior godimento delle proprie fortune, il dolore dell'infelice e del vinto non è che spettacolo circense. 

Oramai solo l'uomo che ride ha cittadinanza romana.

E poniamo pure che sia vero ciò che mi dici, che la carne è la verità dell'anima; ma il viverla, in ogni coniugio, importa l'inganno di una menzogna perpetua.

E poiché non è possibile vivere altrimenti una vita dei sensi,  ciò che già fu la mania del sangue in me più non aspira che all' eterno, che ad essere l'eguale respiro (di bronzo), nelle stagioni del mondo, dell'anelito cosmico che muove ogni cielo.

 

Post scriptum.

Ma chi è come te è un individuo che vive. Io invece, che cogito, sono oramai un'ombra senza sangue.

E questo è ciò che è beatitudine e saggezza, e che ci fa distanti e amanti l'uno dell'altro.

Così nuovamente io ti saluto, da dove non mi è più dato ricevere altri tuoi ordini. 

 

 

"Solitario fra i bruti "

 

Mio caro A. V.,

 

Da quanti mesi, oramai, qui io persisto solitario fra i bruti, discosto da uomini oramai inaccessibili.

In questa desolazione di esseri e cose, la solitudine mi ha insegnato frattanto i piaceri più elementari: il calore dell'alacre fiamma nel morso del gelo, la sazietà di un pasto incondito dopo gli itinerari estenuanti, o il riposo del sonno, per le membra esauste delle fatiche del giorno.

Ma nei recessi dell'ombra, l'Anima si è ancor più popolata dei demoni della mia libidine, e gli aperti spazi, e i silenzi degli astri, sono un vuoto infinito che gremiscono loro soltanto.

Dunque quest'Anima, il cui Egemon, nei vicoli di Roma, già mi faceva desistere per la mia dignità superiore, facendola paurosa e vergognosa nel desiderio più vivido,, quanto più si fa ora  il freddo vuoto della sua elevazione, anelando con il nerbo più rude ad un'abiezione di cui è più ancora incapace. Ed io, comunque inetto,  mi accerto così di non essere che un errore vano della ragione cosmica.

Pertanto patisco sempre più debolmente, in una letargia che sempre più immedesima la mia veglia al sonno.

 

 

 

Cancrena

 

A.V, carisssimo,

 

quant'è vero ciò che mi scrivi, rinnovandomi l'esortazione a ritornare a Roma,

Ciò che lo spirito rinnega è il suo medicamento.

Ed è follia, la presunzione di farsi un corpo senza carne.

Ma il morbo è ormai incurabile.

E le immagini dei piaceri dei sensi attecchiscono come uno sterile fermento.

Nel sudore dei corpi non  immagino che l'avventarsi di un'ottusità squallente.

E delle molli delicatezze non presagisco che la marcescenza nel tedio.

Ma ancora,più repellente, tra i potenti e gli acclamati ingegni che hanno la fama, è la ciancia in cui vedo ammalorarsi  ogni discorso,  la flatulenza soave d'odio di quelle bocche, o la cortesia dei modi con i quali ti annientano.

Ho orrore di ogni umano rimedio. Di ogni mia reincarnazione nell'agire spietato che mi immedesimi a loro.

Come oramai soffocavo in Roma, nell'aria che loro respiravano con così libero agio!

Vano è ogni tuo appello, e persistere in questa consunzione è il mio fato residuo, trascorrendovi come ogni acqua di questa terra ora bruciata dal'estuo,  come lo stelo essicandomi nella luce che è logos.

 

P.S.Mma è solo fantasia il mio orrore del mondo?

Come se non fosse vero, che nelle adunanze il successo arride all'ignorante che a se stesso ed agli altri meglio si simula esperto? E che nella congrega alfine si sente in diritto di prevaricare ridente, lo stesso che nella solitudine di se medesimo già dubitava di ogni propria ragione.

O che il dialogare non serve, altrimenti, che a cercare dei complici nell'ingannare se stessi? Senza più remore, così, nel risolversi a infierire spietati?

Dimmi, quando mai è altrimenti che cosi?

E dove, mai?

 

Che vale dunque scriverci ancora?

E' inutile ogni altro discorso.

La mia anima ha il livore atrabiliare di queste nubilagioni continue, e si spregia, ad ogni sospiro, per l'impotenza del suo attaccamento alla carne. Così come si aborre per la putredine in cui fermenta la sua astinenza.

E la mia stagnazione è divenuta cancrena.

 

 

 

 

Il dono supremo

 

Vale atque vale, per sempre, per sempre mio caro A.V.

 

In queste contrade infine il mio spirito ha perduto ogni volontà superstite.

Ed ora, infine, il filosofare  non è più ancora discorso, ma inedia vera della carne e del sangue, mentre la mia abulia, in tutta verità, non è che la volontà di diventare tutt'uno con ciò chi io non sono che 'è di fuori di me. (tutto ciò ch'io non sono.) (il volermi soltanto ciò ch'io non sono.

Anche l'ombra interiore ora mi è vuota, e le braci non sono che cenere ( di cenere) dell'imminente cenere.

Nelle estreme faville fuggita è ogni Anima di Mani e di Lari, e nella beltà dei corpi, vincolo estremo, superstite è solo una brutalità inerte che mai non consente.

Così l'inchiostro di queste parole, nel loro divenire la mia verità ultima, si fa il sangue che cola dalle mie vene, mentre ogni vigore viene languendo, e dalla latebra incombente ti porgo sull'orlo l'estremo saluto, senza più tormenti di piaceri o sete di fama e di gloria, ora che la tenebra ha divorato ogni luce celeste, ed io felicito di non essere, al più presto, più nulla di vivente che patisca.

Solo quest'ultimo voto, ho le forze ancora di porgerti: dopo la mia morte, con le mie ceneri, disperdi ogni mio scritto.

Ogni residua traccia che mi sopravanza. Perche io sopravviva nel tuo solo ricordo.

Così che la tua morte a venire, sia della mia fine perfetta il dono supremo.

  

 

 

Variazioni/ Addizioni

 

 

La cerva

 

E nei miei sogni inseguo una candida cerva, diamantata sul petto, che in un' interminabile selva interminabilmente recede...

E stillano sangue fra l'erbe i suoi passi leggiadri..

In rubini che si cristallizzano, nel gorgheggio di voci

tra alberi dintorno spogli di vite. 

 

 

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