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CHANDERI



Chanderi la si raggiunge per lo più da Lalitpur, dove l’Uttar Pradesh si insinua più in profondità nel Madhya Pradesh, a sud di Jhansi, lungo la direttrice ferroviaria che da Jhansi  giunge a Bhopal, doppiata dall’arteria stradale che  reca a Sagar. Ma una dolente premessa  si rende qui necessaria, a onore del vero,  prima che chi intenda visitarla si risolva a giungervi:  i 37 km che vi recano da Lalitpur, si riveleranno il tormento incessante, per i tre quarti del percorso, che  è  inevitabile patire per accederne alle bellezze recondite, delle quali a loro volta è bene premettere, perchè si abbia consapevolezza  di  quel che si perde sottraendosi al subbuglio, che sono  quanto di più bello  riserva il lascito in India dell’arte islamica afgana.

Tutto un sobbalzo, uno sconquasso di organi interni, per schivare l’uno o l’altro cratere stradale senza potere evitare il successivo, che solo la stabilizzazione concessa dal viaggio a pieno carico degli autobus di linea macilenti, può lenire nelle trasmisssioni delle vibrazioni ossee. Ma  si riveleranno le asperità ch’è valso la pena affrontare fino all’ultimo scombuiamento, che avrà termine  non appena si affianchi e si superi la Rajghat dam sul fiume Betwa, e inizi l’erta che fa ascendere sull’altopiano del Malwa,  addentrandoci di lì  a poco nell’abitato di Chanderi adagiato tra i colli.

Tale arrivo in salita, lasciandoci alle spalle per l’altura del Malwa, ed il rientro nel Madhya Pradesh, le lande del Bundelkand che sono situate  nell’Uttar Pradesh, ci fa già intendere  quanto fosse militarmente strategica la postazione di confine di Chanderi, e si situasse imprescindibilmente lungo le vie del commercio tra l’India del Nord ed i porti occidentali  ed il Deccan, destinandola all’affluenza della ricchezza e alla conquista predatrice.

A credere al visir Abul Fazl, a quel che riferisce  di Chanderi , nell’Ain-i-Akbari, “La costituzione di Akbar”,- volume terzo e conclusivo del  monumentale libro celebrativo dell’ imperatore moghul Akbar, l’Akbar Nama, alla fine del Cinquecento era Chanderi  una mirabile città fiorente con 14.000 case di pietra, 61 palazzi, 384 bazar, 1.200 moschee, 1.200 pozzi con gradini...Meno immaginifica, sotto tali parvenze di essere puntualmente precisa, è la rappresentazione che ne preservò all’inizio del medesimo secolo l’avolo capostipite  di Akbar, ossia Babur, imperatore,  nel libro delle sue memorie, il Baburnama, alle pagine che scrisse dopo averla espugnata il 2 settembre del 1527, di Venerdì, sottraendola a Medina Rai, il ministro secessionista di Mahmud II del Malwa, a cui il potere sulla città era stato trasmesso solo sette anni prima dal re del Mewar Rana Sanga di Chittorghar, che l’aveva a sua volta strettta d’assedio  stremando le resistenze di Mahmud II.

 “ E’ la cittadella di Chanderi su di una collina e all’interno ha un bacino d’acqua intagliato nella roccia... Tutte le case in Chanderi, siano esse alte o basse,  sono costruite in pietra, quelle dei ceti più alti essendo laboriosamente scolpite; quelle delle classi umili sono anch’esse di pietra ma senza essere  scolpite....”

Ma ancor più affascinante ed affascinata è l’immagine di Chanderi che due secoli dopo, nel 1859, si offrì alla vista dell’ufficiale armato Lt Reginald Craufuird Sterndale, così come ebbe a scriverne, accedendovi dalla Kati Ghati, la porta ch’è intagliata nella montagna, a sud di Chanderi, ed ora confinata al traffico locale, ma che dall’epoca della sua costruzione, nel 1495, venne destinata ai viaggiatori che pervenivano in Chanderi dal Malwa o dal Bundelkhand: “ Transitando attraverso la Khati Ghati, Chanderi sorgeva alla vista come un dipinto dal quale sia stato improvvisamente scostato  un telo. Le montagne formavano una lunga valle a ferro di cavallo interamente chiusa su tre lati. Sotto di noi giacevano la città di magnifica pietra scura, alte case, pinnacoli di templi scintillanti d’oro, moschee, cupole, minareti e portali, palazzi estivi...tutti  cinti  da masse di fogliame, densi boschetti  di tamarindo, shureefa, more, frammischiati con  luccicanti specchi d’acqua sui quali migliaia di volatili si svagavno.Tutto intorno si snodava un’ alta muraglia in pietra, bastionata, dotata di torri con feritoie e di imponenti porte, e a sinistra, a coronamento del più alto sperone roccioso  delle montagne, e dominando l’intera valle, e l’intera città, incombevano minacciose le scure torri ed i bastioni della cittadella

La fortezza, ora più imponente che arcigna, senza  incombenti  tetraggini d’aspetto, sovrasta alla vista la città, e più non vi esenta di sè lo sguardo, come si acceda a Chanderi dall’opposto versante, quello per il quale vi si è pervenuti secondo il nostro itinerario, sicché la visione che ne ebbe il luogotenente resterà tutta da raggiungere nella sua contrapposizione a distanza, dopo avere traversato e visitato l’intera città.  L’ingresso si apre ora a noi  in prossimità della Delhi Darwaza, la porta (darwaza) di Delhi, una delle quattro, su cinque originarie, che ancora sopravvivono della cinta muraria, o kot, ultima, fra le molteplici cortine di un   tempo, che ancora in parte racchiude la città interna, o andar sheher .

 

 Fu sotto il sultano Dilawar Khan che ebbe inizio la sua costruzione, e fu  portata a termine nel 1411, sotto il regno di Hoshang Shah, quando la città era sotto la signoria  dei  sultani afghani di Mandu.  La caratterizza il rilievo su ambo i lati del shardula, il mitico animale che dai suoi artefici mussulmani fu attinto alla mitologia  hindu,  esso vi è raffigurato mentre è intento  a sgominare un elefante,  per emblematizzare il potere incontrasto dei governatori della città. Di matrice hindu sono pure le mensole  lavorate come fossero intagliate nel legno, nei loro boccioli gemmei pendenti, che sovrastano plurimi gli stipiti interni della porta, sagomati a loro volta  nelle guise dell’ingresso di un palazzo.

Appena oltre la porta,  trattenendo ogni anelito monumentale, ci è concesso, non meno fascinoso, di sviarci inoltrandoci, sulla sinistra, per i selciati delle strade sempre più restringentisi  e gli slarghi ombrosi dell’antica città interna, che risorge alla vista nei suoi scorci d’incanto,

ove le alte murature e i pilastri di supporto delle antiche magioni, o di occluse porte urbane,

 trovano un  seguito ed un insediamento in laboratori e officine e scuole, ed odierne dimore,

 

calcinate di bianco e di blu,  nei loro sporti sovrastanti.

 

A poco a poco l’antica città si fa così il  Sadar Bazar, nella varietà dei suoi negozi e commerci artigianali, tra i quali primeggiano quelli dei rinomati sari di Chanderi, confezionati nei laboratori che si possono intravedere e in cui è gradito l’accesso, ove le fusaiole e i telai sono all’opera nell’intesserli.

Bellezza dei colori, dei semplici motivi ornamentali, loro lunga durata, leggerezza ed eccellenza della seta in cui sono lavorati, i pregi cui è oggi dovuta la loro fama.

Meno rinomata, ma di rilievo, anche la lavorazione delle foglie di tendu per fabbricare di casa in casa le bidi, o sigarette.

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 Seguendo l’ opera femminile intenta nella lavorazione dei sari, il vagare ci conduce inevitabilmente, lungo  la via che reca al forte, al primo degli edifici monumentali,  il Raja-Rani ka Mahal,  il palazzo urbano del re e della regina di Chanderi, che  ospita la più importante  scuola tessile. E’ composto di due edifici distinti raccordati da una galleria, ai margini di una vasto spiazzo.

Dai corridoi  cinti da pilastri che danno sui cortili interni,  per l’altezza dei tre piani, all’ombra di torri e chattri, si può accedere ai laboratori velati da tendaggi, o lo sguardo si può sollevare alla magnifica vista  delle mura e dei bastioni possenti della fortezza sovrastante, o altrimenti può anticipare, sulla sinistra, l’allinearsi dei bianchi sikkaras cuspidati dei 24 santuari, svettantivi bandierine color zafferano, che compongono il tempio Shri Chaubisi Jain.

Grande è stata nei tempi la presenza che persiste vitale della Comunità jain in Chanderi e nei dintorni, lo attestano i templi che sono  pressocché tutto quanto  rimane dell’antica , Budhi Chanderi, situata ad una ventina di chilometri distanza, più ancora in altura, le sculture rupestri improfanate e i tempietti nelle immediate vicinanze di Sri Digambar Atishay Khandagiri, o i siti di pellegrinaggio nel raggio di una ventina di chilometri di  Thuvanji, Sironji,  e quelli nei paraggi più remoti e più celebri di Deoghar.

Più a Nord Est, tra  Gwalior e Jhansi, è la Comunità madre di Sonagiri, bella del biancore della sua successione di  templi lungo un intero pendio,  ne proviene chi fu il fondatore stesso del tempio Sri Chuabisi, Bhattaraka Harichand, mentre oltre Lalitpur sussiste una costellazione ulteriore di siti jain non meno importanti, nei pressi di Tikamgarh,  Baldeogarh, in  Khajuraho e Nachna Kuthara.

Di due parti consiste il tempio,  di cui la più recente ospita ed offre alla devozione le 24 immagini dei 24 profeti jain  o thirtankaras, una per ciascun santuario.

Se il tempio non si è  prestato che al vostro riguardo  devozionale, poco più avanti, più sottostante al forte, potrà rinvigorire la vostra sensorialità il vivace cromatismo hindu della facciata del  tempio  in onore di Narashima, la quarta incarnazione di Lord Vishnu, semi-uomo, semi-leone.

Cinque  gradini di pietra sopraelevano l’arcata d’entrata, tra due gallerie che ostentano il più brillante colorito, svariante di giallo, di rosso, di blu.

Le sovrasta  un baldacchino cupolato e guarnito di chattri, Ancora un cortile interno di smaglianti pitture, o rangoli e si è al santuario del tempio per la venerazione del dio.

Una retrocessione oltre il palazzo di re e regina, ci conduce alla mole antica della dimora della casa di Baiju Bahwra, il  musico eccelso, e santo, che primeggiò  alla corte stessa del Raja Man Singh di Gwalior.

Ci si interni ancora di più, volgendo a sinistra, e si perviene di lì a poco  ad uno dei più incantevli monumenti di Gwalior, le presunte tombe della famiglia del santo sufi Nizamuddin.

Se ci si attiene a ciò attestano una placca esterna ed alcune iscrizioni tombali, che fanno risalire i relativi sacelli al 1425 quando era signore di Chanderi il Sultano del Malwa Hoshang, che diede l’incarico di erigerle al ministro Malik Salaar, sono piuttosto i sacelli  di alcuni  tardi discepoli del grande asceta sufi, sorti al seguito della testimonianza di fede di Hazrat Wajihuddin, coevo di Nizamuddin,  preposto alle genti di Chanderi dal sultano Alauddin Khilji.

Ciò detto, è bene forse smemorarsene, per restare più assorti negli intricati incanti della loro trascendenza ultraterrena, nelle trame di luce ed ombra che  profilano gli intagli geometrici e floreali, i rilievi in cui sboccia la pietra.

 

Incroci di diagonali dai fulcri astrali, il loro intercidere ottagoni concentrici, trine stellari, pendenti foliari, intrichi d’arnie alveolari, capolini floreali esagonali dal cuore di stelle, da cui si dipartono e si interconnettono rombi di petali, la profusione  in cui può estasiarsi la mente.

Lasciati i sepolcri con comprensibile stento,  resta il dilemma se portare a termine la visita monumentale della antica città interna, o ascendere prima al forte, senza resistere oltre alla suggestione di entrarvi.

Confidando nell’ arte di indugiare del visitatore, nella morosità della sua delectatio, e prediligendo l’ ordine di precedenza cronologica dei resti, optiamo per ritardare l’ascesa, dirigendoci  verso nord ovest , dove  s’ergono le rovine e gli edifici più monumentali della città e della civiltà che finì sottomessa  ai Moghul, dopo la presa del forte da parte dell’ imperatore Babur: 

Si perviene cosi, irresistibilmente, per i galis che sono come i capillari dellacircolazione della sua rete viaria, al di quà dei resti  delle sue mura, i kot dell’andar sheer, o città interna, come si  già detto, al monumento- simbolo della città di Chanderi, la Badal Mahal Gate, ossia la Porta del Palazzo tra le Nuvole. 

 

Quando mai, al suo cospetto, sorge da dire al solo suo nome, denominazione fantasiosa fu più realistica: solo tra le nuvole,  appunto, può situarsi il Palazzo fantasma cui immetterebbe, giacchè la Porta ha un seguito solo nel fondale del forte sù in alto. Più prosaica e fittizia, ci sembra la spiegazione del nome ch'è originata dal dato che le sue torricelle sembrerebbero toccare il cielo,

mentre  il vero storico, chissà,  è che era una porta trionfale, di rappresentanza,  che  preludeva per gli ospiti, tra fiori e musica, ai palazzi di corte ed al forte. Certo è che fu edificata nello stesso secolo d’oro degli altri monumenti islamici di Chanderi, per la precisione nel 1450, quando il Sultano che da Mandu governava  Chanderi era Mahmud Shah Kilji.

 

Entro il complesso di cui fa parte,  la porta svetta nelle due torrette che ne affiancano la cortina centrale, in essa si sormontano due archi , dei quali quello superiore ha le sembianze di un affaccio su cui incombe il graticcio finissimo di quattro jali, ma solo perchè l’apertura,  in realtà, è l’ammanco di altri quattro pannelli andati perduti.

Una lunga storia, di reminiscenze, prende corpo nelle torrette laterali inclinate. Esse richiamano e si richiamano all’arte  dei sovrani Tughluq di Delhi, già governatori del’area di Multan, ora nel Pakistan, dai piloni inclinati delle cui moschee trassero o trasmisero ai loro artefici  l’ ispirazione di quelle affini in Delhi, del secolo antecedente a quello della nostra porta. Le loro vestigia si ritrovano nei villaggi ora inglobati nella attuale megacity, in cui sorgevano le due città di Delhi fondate dai sultani Tughluq, dopo quelle antecedenti di Qila Rai Pitora e di Siri:  Tughlaqabad e Jahanpanah, quest' ultima di raccordo tra Tughluqabad  e Siri.

Adiacente a Tughlaqabad,  è dunque visibile la moschea  inclinata nelle sue mura di Ghiyasuddin,- quello Tughluq, da distinguersi dal precedente Ghiyassudin Balbab, che in Chanderi già aveva fondato  la congregazione originaria della grande moschea-, mentre nei villaggi  che corrispondono al sito storico  di Jahanpanah, sorgono le moschee dagli ingressi tra piloni, così come in Chanderi la  Badan Mahal, di Kirkee e di Begumpuri, da cui i caotici villaggi circostanti traggono il nome. A completezza dei riferimenti, va ricordata per i suoi minareti laterali inclinati anche la ulteriore moschea tughluquide di Kalan, che è rintracciabile nella vecchia Delhi seguitando l’arteria che vi si inoltra dalla Turqaman Gate, per distaccarsene dentro  strettoie di vicoli che tolgono il respiro.

Ma dalla nostra porta  del Palazzo tra le nuvole, la vista può spaziare libera  su una vastità di cieli, inoltrarsi con i voli degli uccelli nelle chiome in cui si infoltano  gli alberi retrostanti, o sospingersi verso la fortezza che li sovrasta, differita e incombente, ove un bastione ne asseconda la curvatura.

Eppure ancora una volta ricusiamo, sia pure  temporaneamente, il suo lusinghevole invito attrattivo,  per ritrovarci al di là della cortina dielle mura, ove è adombrata la quiete islamica della Jama masjid, la moschea del Venerdì.

Benché la fondazione della moschea congregazionale  risalga alla riconquista islamica di Chanderi ad opera del sultano Ghyassuddin Balban di Delhi, nel 1251, ( lo stesso il cui mausoleo in Tughlukabad presenta la   inclinazione muraria che si ritrova nei minareti delle moschee tughluquidi in Delhi e nelle torrette della porta Badhal Mahal, nella nostra Chanderi),  la Jama Masjid si evolse nel più puro stile afghano, secondo i dettami dei Sultani del Malwa che da Mandu subentrarono nel governo della città, al punto che se ne posticipa l’edificazione fino al periodo di massimo splendore artistico che intercorse sotto il loro governo della città, durante il regno dunque di Mahmud Khilji,- smentendo anche ciò che lascerebbe supporre un’iscrizione rinvenuta nella moschea, secondando la quale si dovrebbe retrodatare la sua edificazione al periodo della sovranità su Chanderi di Dilawar Khan ( 1390-1405).

Al di là del meraviglioso portico d’entrata sontuosamente decorato nella sua calda pietra, di fogliami cuoriformi, intrecci di nodi, schiuse rosacee di corolle di petali, ecco che  intorno alla vastità del cortile, nei chiostri laterali, o dalans,  nella sala di preghiera sormontata da tre spoglie cupole di marmo, senza che il complesso sia sovrastato da alcun minareto, la moschea si  depaupera di  ogni ornamentazione, che non siano i medaglioni di loto e i montanti  serpentinanti,  e  si fa luce ed ombra della  sublime potenza di nude arcate e pilastri portanti, per il raccoglimento assorto di sola meditazione e preghiera.

Per ridotte che ne siano le dimensioni, più ornamentato appare il dargah di fronte alla moschea,  ricco di intrichi di jali, di motivi floreali, che inducono a supporre che sia stato edificato quando a governare in Chandu erano da Mandu  i Kilji del Malwa. Altri due dargah, più tardi, del XVII secolo, sorgono, poco oltre lungo la strada che procede in direzione opposta all’ingresso in città per la porta di Delhi.

Alsecolo avanti, il XVImo, risale invece il Chakla Baoli, preceduto da due tombe, una vasto bacino acquatico scavato a cielo aperto, cuisi scende per scalinate di gradini a forma di V.

Levando inevitabilmente lo sguardo dallo stato d’incuria e d’abbandono in cui versa, possiamo scorgere quanto intanto si sia fatto distante il forte in altura,  come alla sua ascesa non resti più da frapporre che il percorso che conduce agli inizi della salita, tra il clamore del traffico sugli acciotolati,  il clangore dei telai e delle battiture metalliche nelle officine, e  alte rovine fatiscenti e isolate di altri antichi edifici.

Nel risalire invece alle  origini del forte, le inevitabili note storiche ci fanno retrocedere, giustificando una sosta per prenderne nota, fino all’ XImo secolo medievale, quando ne fece iniziare la costruzione un re hindu Pratihara che è centrato nella leggenda locale, Raja Kirti Pal, da cui trae il nome di Kirtidurg.  Occore invece rifarsi più tardi  ad Alauddin Kilj, sì, quello appunto dal cui magnifico mausoleo nel complesso in Delhi del Qutbminar, ha inizio l’assimilazione perfetta della curvatura di cupole ed archi nell’arte indiana, per venire a sapere a quale conquista del forte  si debba la sovrastratificazione definitiva, anche in Chanderi, della civiltà islamica su quella hindu, raggiungendovi il suo acme quando agli esordi del XVmo secolo passò sotto i Sultani  del Malwa in Mandu.

Se si sta alle cronache del Baburnama, il libro di Babur, sembra che quasi senza colpo ferire nel dì che si è già detto del 1527,  l’imperatore moghul si sia impadronito della possente fortezza: ” Io ho espugnato questo forte rinomato, senza dovere sollevare le mie bandiere, o battere i miei timpani, e impiegare l’intera forza delle mie armi”.

Ma il forte ci svelerà tra poco, come a Babur, quanto di tremendo aveva significato tale arrendevolezza .

Risalendovi intanto, per la massicciata del sentiero che vi conduce, ai rumori della città subentreranno il canto degli uccelli  e il clangore dei campanacci di capre, sospinte per lo più da pastori bambini, mentre l'erba  fa sempre più la sua comparsa ai bordi e fra i ciotoli. Traverseremo così una soltanto delle tre porte che rallentavano il passo, la superstite Khuni Darwaza, o Porta insanguinata, che trarrebbe il suo nome cruento dai cadaveri espostivi dei prigionieri che vi finivano maciullati, strapiondandovi dall’alto delle mure da cui erano fatti esemplarmente precipitare, durante il regno dei Sultani del Malwa.

Giunti entro le mura merlate, cattura immediatamente la vista il complesso, o componud, di palazzi sovrastificati addossati ad esse, per superarle in altezza nelle torri, e nei chattri, in cui culminano i tre piani  degli edifici aggregati intorno a un luminoso cortile,  costellato di vere di pozzi.

La vicina moschea, attribuita a Babur, ma risalente al XIVmo secolo,  e di epoca Kilji, sopravvive solo nella sala di preghiera, dal meraviglioso mirab intarsiato di rombi ricamati nella pietra, dei più incantevoli boccioli floreali.

E’ nei suoi pressi che dal balcone della porta Hawa Paur  ci si può alfine affacciare sulla vista incantevole di tutta Chanderi sottostante, del biancheggiare delle sue murature e dei terrazzi dei tetti, nel dedalo di vicoli curvanti e di slarghi di cortili, entro la chiostrahe le fa corona,  delle colline sormontate in cima da  dei dargah , ove già si possono ravvisare, sulla sinistra, i bacini lacustri dei siti di caccia, la Kati  Gathi intagliata in una gola rupestre, mentre tra gli abitati e l’infoltarsi degli alberi in Chanderi,  è ora un’ incantevole meraviglia ravvisare nella panoramica, ad uno ad uno, pressocché tutti quanti i monumenti già visitati, come in un loro plastico che ne è invece la visione fragrante e reale: eccoli di nuovo, miniaturizzato, il Palazzo del Re e della regina, il tempio jainista accanto, con i sikkara e gli stendardi color zafferano sventolanti, più sottostante il tempio di Narashima, e più oltre, come si allarghi, la vista, la porta Badal Mahal, la Jami masjid, il tutto incantevole, stupendo...

Nel distacco, giova recarsi per assoluto contrasto al Jauhat Tal, la fonte primaria per il forte  d’acqua sorgiva, e vi sapremo che cosa rivelò d’atroce, il suo pozzo, sui retroscena dell’arrendevolezza a Babur di Medini Rai e dei suoi militi e cortigiani hindu : 600 donne del Rajput  si erano gettate dentro nel pozzo in un suicidio collettivo, pur di non finire stuprate e oltraggiate nelle mani del nemico.

Una lasta di marmo nel padiglioncino eretto sul tal, commemora il loro sacrificio.

 Più a Ovest  è la tomba del grande musicista cantante** Baju Bavra,  cui,  per la dedizione totale alla musica del cuore infranto da un amore deluso, si rese nel canto  possibile l’impossibile: in una tenzone canora vincere di fronte ad Akbar medesimo il  mitico Tansen, suo favorito.

 

La discesa dal forte ci porta, in conclusione dell’itinerario, a risalire i pendii, poco oltre il termine della discesa , che gradino dopo gradino ci recano al tempio hindu Shri Jageshwari.

Stando alla leggenda ch’è persuasione locale, sarebbe statta fatta edificare dal  medesimo Kaja Kirti Pal che avrebbe dato inizio all’insediamento del forte,  ma stavolta per una ispirazione della stessa Dea.

Come in ogni mito che si rispetti, anche in questa leggenda c’è chi non sa resistere alle prescrizioni di attendere, e si volge ad Euridice prima che sia fuori del Tartaro. o all’indietro a vedere Sodoma che ancora brucia, sicché Kirti Pal  inaugura il tempio prima dei tempi convenuti, e la dea vi manifestò se stessa solo nell’ emersione del volto.

In una cava vicino all’entrata principale sta  l’idolo prezioso della dea, e un tempio moderno ceramicato ne assiste il culto.

Tra i vari padiglioni, tinteggiati tutti di bianco, due shiva linga, in pietra nera, si distinguono tra tutti gli altri, con il loro toro Nandi  in adorazione,  perchè recano  scolpiti  1.000 più piccoli linga, alla stregua dei mille, e più Buddha, di innumerevoli luoghi di culto buddhisti.

Un’antica immagine rupestre di Shiva e Parvati, scolpita nella roccia retrostante il tempio, un dio Hanuman, anch’esso scultoreo, immancabilmente tinteggiato di rosso arancio, sono le reliquie salienti del tempio, prima di ritrovarci al termine del nostro itinerario, ai piedi del colle, presso il bacino lacustre del Sagar Kund, cui i ghat discendono tra quattro chattri agli angoli.

 E per noi resta soltanto il respiro del Dio in una brezza fra i rami, che percorra gli anfratti  e  i templi  nella cavità del monte.

 


 


 

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Riprendiamo freschi di nuove energie  la nostra visita,  ed eccoci pervenuti , preso un tuk tuk,  a quanto di più bello,  a non più quattro chilometri di distanza dal centro, in direzione nord ovest, v’ è in  Chanderi nell'ambito dell'architettura civile: il Koshak Mahal,  eretto da Mahmud Kalj in onore della moglie Koshak che vi ebbe il terzogenito.

Sette avrebbero dovuto essere forse i suoi piani, di cui tre soltanto sono giunti a termine, più un quarto semifinito, sopravvivendo a ogni tentativo di distruzione, ultimo quello del British dopo l’uprising, l’insorgenza indiana del 1857: sette piani quanti furono sette i giorni celebrativi la vittoria di Mahmud Shah Kilji su Mahmud di Jaunpur a Kalpi nel 1445. 

Come un Char bag pietrificato, è un enorme edificio cubico, di 35 metri per lato, in cui quattro archi preludono a quattro passaggi arcuati che s’incrociano al centro dell’ edificio, originando quattro quadranti a più piani, inflessi anch'essi in serie di archi e gallerie arcuate.  Scalinate raccordano i piani, finestre balconate si aprono all’esterno immettendo luce. L’ornamentazione è ridotta ai minimi termini, al solo apparato di medaglioni di loto,  di marcapiani dentellati e di trafori di jali al culmine degli archi inferiori,  per lasciare il campo architettonico alla nuda potenza immane delle masse murarie voltate  e dell’incurvarsi degli archi, nel rilancio del loro slancio di piano in piano, di campata in campata, senza che la perfezione espressiva  della tensione che si è sprigionata si risolva nel suo sedarsi. Il tutto nel calore inesausto dell’ardore vibrante di una pietra incensa.      

Di rientro in Chanderi,  lungo il tragitto è possibile soffermarsi, a  poca distanza, presso il Museo archeologico dell'Archaeological Survey of India, inaugurato nel 2007 e di concezione contemporanea.

E' imprescindibile per una rievocazione, sin dalla preistoria, del  passato della regione circostante, mentre di Chanderi  sono ricostruite le varie fasi, a iniziare dall'insediamento originario di Budhi Chanderi, in altura, di cui sono esposti i reperti . Al pari delle rovine templari del sito, distanti 18 km, attestano come fosse un grande centro Jain, al pari di Thuvanji, Sironji, Deoghar nel circondario più prossimo.

Le immagini di tali siti, come delle meravigliose ornamentazioni della sala ipostila del tempio Gupta di Beathi, possono essere un invito da non lasciar perdere a visitarli, insieme con le località archeologiche che ricorrono in prossimità della strada per Mughawli, Nanon in particolare,   le cui pitture rupestri figurano sulle pareti delle cavità rocciose, di riparo, che sovrastano la confluenza tra due rivi in altura.

E ' poco distante dal Musero il Ram Nagar Mahal, il più rilevante monumento hindu di Chanderi, un Palazzo che fu fatto edificare nel 1698 dal Maharaja Durjan Singh Bundhela, e restaurato nel  1925 da Madhao Rao Scindia. Disposto su tre piani, serviva da buon ritiro per la caccia dei marahaja hindu, ed ospita ora il Museo del MP State Archaeology Department, di cui i reperti più significativi sono le pietre celebrative delle immolazioni muliebri della sati.

La sala interna che le ospita, cosi come il cortile, per il tramite di tre porte che immettono al balcone che vi si affaccia, consente di accedere alla vista del lago, il Ram Nagar, che già si era offerto alla nostra vista dall'alto della fortezza di Chanderi. Fu nell'imminenza della cattura del forte, che Babur trascorse la notte su queste rive.

Lasciando il Ram Nagar Mahal, siamo oramai prossimi più a sud, a Shri Digambar Atishay Khandagiri, il più rilevante sito jain di Chanderi,  a ridosso di un'altura verdeggiante,

Le grotte che vi sono state scavate sono ancora più remote delle statue che vi vennero scolpite all'interno, tali rilevi risalgono al dodicesimo, tredicesimo secolo della nostra era, e si sono preservati senza patire sfregi o dissacrazioni. Primeggia tra essi la statua imponente di Rishabhnath, che fronteggia impavida nel tempo i 14 metri della propria altitudine abrasa dal tempointatta.

Due templi sottostanti, una foresteria, un training centre completano il complesso.

Inoltriamoci ancora più a sud, e sarà di li a poco raggiungibile un altro suggestivo monumento del circondario di Chanderi, avvistabile anch' esso in miniatura dall'altezza del forte: é la Kati Ghati, la porta intagliata nella roccia di un colle che immette in Chanderi dal Malwa e dallo stesso Bundelkand.

In funzione dal 1495, si offre ora al transito di armenti, e dei fuori strada, così come sarebbe stata edificata in una notte, per l'arrivo in Chanderi di Ghiyassuddin Khiliji, da un artefice altrettanto portentoso quanto disgraziato.Il lurco governatore locale, a dispetto del suo meravigliato stupore per l’impresa, ebbe la micragnosità di rilevare che vi era la porta, ma non i battenti,  e dunque rifiutò di pagare il capomastro, che tanto ne fu scornato che si suicidò- Presso la porta si può ancora vederne la presunta tomba.

Un'altra leggenda vuole che sia stato invece Babur a volere che una porta disostruisse l'ostacolo che il colle, in cui fu ricavata, frapponeva all'assalto del forte di Chanderi, Un minuto mirhab intagliato nella roccia, presso lo scavo della porta, e tutt'ora ben visibile, gli avrebbe consentito di pregare per il fin troppo facile esito della battaglia per la cattura del forte, ed è all'origine di questa storia ulteriore.

 

Altre leggende infioreranno il nostro percorso ulteriore e conclusivo nei paraggi di Chanderi.

Esso ha la sua prima meta nel romantico e incantevole Parmeshwar tal, uno specchio d'acqua dall'accesso sconnesso e oltraggioso della sua bellezza, irredento, nell’ultimo tratto, dai resti poco distanti di un antichissimo tempietto hindu shivaita e sfinito dal tempo, in stile remotoPratihara. Sul lago si affacciano, fronteggiandiosi, il biancore dei santuari del  tempio Lakshman e i resti imponenti di alcuni chattris hindu di Re Bundela, Bharath  Shah e Devi Singh. Fu in queste acque che il mitico re fondatore Kirti Pal, della dinastia Pratihara, glorioso e lebbroso, essendovi reduce dalla caccia nella giungla più profonda, trovò una cura miracolosa che lo depurò della sua lebbra. Gli apparve allora la dea Jageshwari, chiedendogli, come il lettore potrà facilmente supporre, alla luce degli innumerevoli altri tramandi dello stesso canovaccio leggendario, di costruirle un tempio sulla vicina collina, con il solito annesso divieto inderogabile, che nel tal caso era l’intimazione di mantenerne chiuse le porte per nove giorni, a  frustrazione della sua curiosità. Immancabilmente il re venne meno all'interdetto,  e di nuovo fu afflitto dalla lebbra. Era allora la vecchia ( Budhi) Chanderi la capitale, d un tremendo terremoto di lì a poco la distrusse, obbligando re Kirti Pal a trasferirne il sito dove ora sorge Chanderi.

Obbligo di completezza ci impone di riferire, a gloria del tempio Laksman,  la consueta storia di un idolo del Dio che non ne vuole sapere di starsene dove i devoti l 'hanno sistemato, in tal caso l'ombra confortevole di un peepal,  e che non s' acquieta fin che non lo dispongono nel luogo richiesto, per l'appunto dove ora sorge il tempio Laksman.

Il devoto vi può onorare anche il dio Shiva e Radha Khrishna, in annessi tempietti, mentre la kutya,  ossia una capanna, è la stanza adibita al culto singolare di Vibhishan, il fratello virtuoso del demone Ravan.

Di poco a defilarsi tra i campi più a est, sorge in tutta la grazia delle sue serpentinanti mensole il mausoleo Shehzadi ka Rauza. Le tettoie o chhajja che esse sorreggono, lascerebbero supporre che l'interno sia a due piani: duplice è invece solo l'ordine delle arcate, quello superiore di dimensioni più ridotte, al pari di quello esterno rispetto all’ inferiore, su cui sfora l'oculo celestiale della cupola franata, insieme con tre dei quattro chattris che l'attorniavano.

Un fregio in ceramica blu che ricorre sopra la gronda superiore, accredita che le calde pareti, ora  fulgide di luce, fossero un tempo ricoperte di mattonelle smaltate.

Il suo ingentilimento, come quello delle merlature in cui si apre lo schiudersi del loto, ne attesta la natura muliebre, e prelude alla leggenda dolente e funeraria che ora narrerò.                                                

La principessa Mehrunisssa si era innamorata di un comune comandante militare, senza gradi di nobiltà. Il padre, disapprovando la loro relazione, cercò in tutti i modi di dissaduerla e di farla desistere, ma ogni suo sforzo fu vano. Risolse pertanto di porre termine alla relazione facendo assassinare l’amante della figlia. Il giovane uomo, benchè gravemente ferito, riuscì a sottrarsi ai suoi carnefici e ad essere di ritorno in Chanderi, dove crollò di schianto ed emise un gemito agonizzante. La principessa ne riconobbe la voce morente e accorse dal suo amato, ma solo per essere in tempo a raccogliere l’esalare del suo ultimo respiro. Sconvolta, e con il cuore infranto, ella pure trovò allora la fine dei suoi giorni. Ove i due amanti spirarono accanto, due lastre di pietra contigue, con scolpiti due nobili cavalli, indica presso la Shehz adi Rouza che ivi i due amanti si riunirono nella morte trovando nel mausoleo sepoltura.

Procedendo ancora più fra i campi, e più a est,  sotto un monticello su cui si erge il bianco Ali ji-ki-darghah, possiamo ritrovare la magnifica Shahi Madarsa, risalente ai re Khilji di Mandu.

Sarebbe stato il solito Babur a violarne la natura di scuola, insediandovi le false tombe all'interno, demolendone le cupole.

Foss'anche avvenuto, il presunto misfatto non ci impedisce di ammirarne lo splendore delle jali scolpite, inserite, come un diaframma di luce nei loro intagli, lungo i muri della parete in comune  della camera centrale e del portico maestoso che le volge intorno

Una camminata per il terreno roccioso, ci può condurre, più a sud,  all'ultima meta del nostro viaggio, il Battisi Baoli, ch’è il meglio preservato dei 1.200 baoli di Chanderi, tanti quante erano  le 1.200 moschee che vi sarebbero sorte, di cui dice magnificandoli l'Ain i Akbari.

Iperbolico il numero, quanto il fabbisogno d'acqua della Chanderi Medioevale, in arida altura, a sei chilometri di distanza dallo scorrere delle acque del Betwa, con una popolazione in aumento sino alle 100.000 anime.

Fatto sta che di baoli possiamo ancora ammirarne vari in Chanderi, il Chakla Baoli e il Moosa Baoli nel centro attuale, oltre al Battisi Baoli presso il quale volge al termine il nostro itinerario. E’ un  grandioso  bacino  quadrato della profondità di quattro piani, con quattro scale (ad esso) d'accesso, che rappresenta l'estrema sublimazione, in un edificio civile, della tendenza dell' arte islamica di matrice afghana, diffusasi in India, all’astrazione di ogni ornamentazione sino al supremo spoglio, affinché la nuda potenza in tensione, o la sobrietà grandiosa delle pure volumetrie architettoniche, cantino la gloria di Dio o dei benefici del potere civile 

 

19 luglio 2013 9 ottobre 2013

Quando tre giorni fa Kailash mi ha detto dell’incidente che gli era capitato sul tuk tuk solo  un’ora prima, mentre in lui prevaleva ancora il sollievo di avere evitato il peggio, avrei voluto farmi a pezzi dalla disperazione,  per il destino avverso che sembra  frustrare ogni nostro sforzo,  per  la sfortuna che a Kailash non concede tregua,  non lasciandogli  la soddisfazione  neanche, con il suo tuk tuk, del  guadagno esiguo  di mesi e mesi di lavoro, che l’incidente in un istante  aveva  dissolto con i suoi  costi.

“ Com’è stato Kailash, dimmi...”

Da quello che ha dovuto ripetermi, a più riprese, ho inteso che lunga la strada che correva diritta da  Bamitha a Khajuraho,  mentre da solo rientrava lentamente , era sopraggiunto un altro autorisciò alle sue spalle, guidato in tutta fretta da un conducente  scriteriato che voleva raggiungere quanto prima  dei viaggiatori che lo attendevano in Khajuraho, nella giornata di gran traffico perché era un giorno di festeggiamenti in onore di Shiva. Si era fatto largo strombazzando “ pip... pip... pip...”, Kailash frastornato si era volto in sua direzione scansandosi, per ritrovarsi già contro un albero di mahua quando si  è rigirato.

“ E qello si è  arrestato, a soccorrerti?”

“ Si  allontanato ancora più  in fretta...”

L’intero vetro davanti era in frantumi, era da aggiustare la capotta in più punti, forse occorreva il ricambio della parte gialla ammaccata e storta del muso anteriore “ Ma io sono salvo,  non c’era nessun passeggero, l’autorisciò va ancora bene...”

Sapeva di un altro incidente capitato quello stesso giorno all’altezza  dell’aeroporto,  in cui era andato sfasciato l’intero veicolo,  un’ulteriore incidente, di cui mi ha detto oggi, era capitato presso il villaggio della moglie, e  le conseguenze erano state che  una ragazza si era infortunata a una gamba.

La polizia era intanto presente per dei rilievi e per scattare fotografie, mentre Kailash stava discorrendo con  l’agente presso il quale aveva acquistato il tuk tuk, al quale l’ho pregato di chiedere quali rischi coprisse la sua assicurazione. Anche così, cercavo di evitare che la mia esasperazione spaventata di finire travolto dalle conseguenze giudiziarie di un incidente più grande, trovasse nell’amico sfortunato un  suo miserabile sfogo .

“ Kailash,  non ho avuto esperienza , in tanto viaggiare per l’I india, di incidenti gravi in autoriscio. Solo in città, qualche urto... non sapevo che potessero verificarsi in pochi mesi  in tale numero, solo in Khajuraho... anche la settimana scorsa il conducente di tuk tuk che è anche lui   barbiere di casta...”

Ma con l’avvento della sera, per il fatto che dopo avere condotto il tuk tuk in officina mi aveva tagliato fuori  dalle decisioni sulle  riparazioni in atto,  o ancora da compiere, che volesse fare tutto di sua testa, avendo già messo in conto allo stesso tempo che fosse tutto a mio spese,  avrei trovato modo nel mio dissesto interiore di  sfamare il dolore avventandomi sulla sua inermità disgraziata,  ritrovando la via del cuore e dell’amore solo il mattino seguente.

Ho anticipato ad Ajay quello che gli avrei detto”  Il tuk tuk è anche un mio problema. Chi paga, ora?  Può farlo da solo papà? Ma deve decidere con me”

“ Lo so, I know” mi rispondeva Kailash con tono remissivo e dolce.

Il tuk tuk  era in riparazione in un’officina di Khajuraho, forse  poteva bastare farsi inviare da Chattarpur solo una secondo vetro anteriore,  era fortemente probabile che si potesse conservare la parte   superiore del  muso davanti, bastava solo ripararla e tinteggiarla, per il momento si poteva fare a meno anche di sostituire la capotta. Ma al pomeriggio quando l’ho risentito di nuovo il suo umore era di nuovo e ancor più sconvolto. Era Chandu, il nostro Chandu, ora la ragione della sua disperazione più grande.

“ Oh, come sono sfortunato, “ what bad life!. Il raffreddore gli è passato di dentro, sentissi come fa fatica quando respira… il buco che ha sopra lo stomaco va su e giù”

Ho cercato di non perdermi d’ animo, sconvolto, perchè l’amico conservasse la lucidità mentale, prendendosi la massima cura di Chandu senza angosciarsi...

“ Kailash, non farti problemi di denaro, se non ce la facesse più a respirare,  portalo all’ospedale cristiano di Chattarpur. Contatta qualche conducente di taxi per questo... Quante rupie hai in casa? “

“ Solo settecento”

“ Non importa. Pagherai domani.  E il dottore da cui sei stato, che cosa ti ha detto? Gli hai chiesto se devi portarlo in ospedale?

“ Ha detto che non ce n’è bisogno. Ma che ci vuole tempo perché guarisca. Una settimana, almeno. Aspetto a dare Chandu lo sciroppo del medico, e poi vediamo. Sai dirmi di che si tratta”

Era del Kofarest , stando allo spelling, dal che ho capito, trovando in internet di che genere di medicinale si trattasse,  che Chandu, il nostro Chandu, era affetto da bronchite.

Benché spasimasse a respirare, poteva muoversi e giocare, ora anche rispondermi al telefono, trovare di lì a poco il sonno.

Che Kailash vigilasse attento  sul suo sonno, evitandogli le correnti d’aria di ventilatori, assicurandogli acqua di bottiglia a temperatura ambiente. Io intanto,  dato che l’ora ancora lo consentiva, mi sarei affrettato a fargli avere denaro per l’indomani mattina, per il tramite della Western Union.

Ho dovuto vincere le sue insistite resistenze, avrebbe preferito fare ricorso piuttosto a quanto gli era rimasto depositato in  banca. Ed ho allora inteso che mi aveva tagliato fuori perché non voleva ricorrere al mio aiuto,  che fino a quel momento aveva avuto solo in mente di fare ricorso al prestito altrui.

Il crollo della rupia indiana quindi avrebbe reso per me meno oneroso l’aiuto in euro, l’indomani mattina l’avrei sentito allegro, l’amico, con le rupie già in tasca e le riparazioni che procedevano per il meglio, ma al ritorno dell’incontro nel Parcobaleno con Vandana Shiva, per  sentirne durante il festivaletteratura in corso in Mantova, avrei udito con sgomento  una sua voce cupa e  sorda d’odio, quando caduta la linea mentre mi stava rispondendo Ajay,  ho ritrovato lui al telefono quando ho richiamato.

Alquanto io perplesso, ad Ajay stavo chiedendo perché mai, per conto della madre, mi avesse  domandato più volte quanti soldi avessi inviato al padre.

“ E’ per comperarsi una collana d’ oro, che te lo ha chiesto”, mi ha risposto in sua vece Kailash, torvo  d’odio per la moglie.

“ Ho fatto un incidente, ho perso tutto quanto ho guadagnato con il mio tuk tuk, avrei perduto anche  tutto ciò che ho in banca senza il tuo aiuto, Chandu è malato, e lei vuole del denaro per una collana d’oro...”

Non fosse per Ajay,  Poorti, Chandu, avrebbe voluto porre fine alla sua vita a seguito di  una moglie del genere,  sgradita a tutti  nella sua rozzezza analfabeta, che  non lo rispetta come marito, gli si rivolta nel letto come un animale senza volerne sapere, quando le chiede di fare sesso, ogni tre, quattro settimane...

Era tornata a picchiarla, ma solo prendendola a calci, mi ha assicurato.

Si ricordasse ch’era la madre dei suoi figli, del suo lavoro in casa, che  a lei che lascia il denaro, del cuore con cui si era tra noi interposta, dissennati, mente i nostri bambini scoppiavano in lacrime...

Un anticipo  della sua avversione erano state le accuse rivooltele il giorno avanti per  la malattia contratta da Chandu “ Aveva già lo stesso disturbo e glielo ha trasmesso con il suo latte, tutto il giorno lo lascia nell’acqua, sempre in acqua, acqua, acqua...”

Intanto, acquietando Kailash, avevo fatto di Ajay il messaggero della mia risposta alla madre, in tutto e del tutto negativa.


 

Avrei inteso già oggi,  al finire del giorno, perché Vimala  nelle circostanze  più proibitive, ugualmente ambisse tanto una collana d’oro. Era il giorno che portava a compimento il  Krishna Janmashtani, durante il quale le donne del Madhya Pradesh, dopo la veglia notturna,  in cui compiono la puja,   si raggruppano insieme  per onorare la nascita  di lord Krishna,  come si farebbe  presso una puerpera alcuni giorni dopo i travagli del parto, digiunando sino alle ore quattro del sorgere del sole del giorno seguente, che in India  sono ora già trascorse.

Era anche il   compleanno di Kailash, ma lui non aveva  voluto festeggiarlo, non aveva voluto comperare neanche un dolcetto che allietasse i bambini insieme con lui.


 

“ Kailash non devi volerti così male. Non essere come me.  Ti prego”.

 

8 settembre 2013


 


Sereno, variabile

Il sereno ch’ oggi è riapparso nel blu immacolato del cielo di Mantova dopo le nuvolaglie di ieri, stamane era la schiarita di voce nell'animazione alacre di Kallu, fermo con il tuc tuc, di nuovo in funzione, lungo la strada tra Kajuraho e Bamitha presso l'hotel Clarks, dove egli si valeva della tregua della piovosità per riparare la cappotta dell’autorisciò e ripulirlo tutto di nuovo.
“ Per me è come un bambino, "he’s like a child", ed è bene che levi ora da lui tutta la polvere e lo sporco, adesso che la pioggia è distante nel tempo".
Non era certo il caso di avvertirlo, come mi veniva in animo, di tutta la differenza tra la perdita di un bambino e di un autorisciò.
Chandu,in via di guarigione, stava giocando a casa, dove l'amico sarebbe tornato per il pranzo solo dopo avere pulito a dovere il tuc tuc, e si erano sopiti i suoi dissidi con Vimala.
"Quando ieri mi hai detto che si tornava a celebrare tra ladies il compleanno di Krishna, ho capito perche Vimala ha preteso l’acquisto di una collana d’oro nel momento più sbagliato.
“ Yes”
“ E non essere, amico mio, così duro e cattivo con te stesso” , come quando ieri egli non ha voluto fare festa con i bimbi per il suo stesso compleanno.
“ Lo so, ma quando la vita va male, e devi spendere e non hai denaro perché hai perduto tutto il tuo guadagno per un incidente del genere...”
“ Lo sai bene che io sono in questo come te, ma non è andato perso niente, ed ora non ci resta che ripartire”.
Ad iniziare dalla ricerca del Rani ka bagh, del giardino della regina dove Vandana Shiva ha la sua banca dei semi nei pressi di Khajuraho.
“Ne ha sentito parlare il tuk tuk man che è vicino a me, forse è lungo la strada che da Rajnagar va a Gangi. Ti ricordi quando l'abbiamo percorsa?”
“ Un anno fa, oramai. Ma ti sarà facile ritrovare il giardino, grazie alle sue immagini che stanno in un documento che riceverai con una e-mail”
“ Andrò nel Shiva net più tardi. Ora devo finire il lavoro per essere a casa al più presto per pranzare”.
“Anche per me è l’ora dell’uscita per un caffè al bar. Scriverò più tardi alla lady italiana che è l’autrice del libro sul museo archeologico di Khajuraho, per essere poi stasera da mia madre. See you later my dear”“ See you later”.

9 settembre 2013


Odorico Bergamaschi

 

Gloria degli uomini , VanaGloria, e Gloria di Dio in Spinoza

 

Nell’Ethica di Spinoza la Gloria è considerata  per il ruolo che la sua ambizione assolve nell’asservimento o nella liberazione degli uomini, entro l’ordine comune della Natura di cui fanno parte ed in cui rientrano gli stessi ordinamenti sociali e politici,.

In Natura, nell’ordine e nella connessione sociale delle idee, la lode o il biasimo degli altri per le nostre azioni ed opere è ciò di cui ci Gloriamo o ci vergogniamo ( Ethica, III, definizioni XXX, XXXI).

Lode, o Biasimo, suscitando idee di Gloria, o di vergogna, felicitano o rattristano  la nostra Soddisfazione interiore, o Acquiescentia, intensificandola o deprimendola.

Gloriarsi è una nostra felicità, in sè, e come ogni felicità corrisponde ad un incremento di potenza e di perfezione, dunque è  buona cosa, sempre che  non sia eccessiva,  e sempre che  ad originarla, in un contesto conveniente, sia ciò che è onesto, ossia ciò che giova anche a perfezionare gli altri uomini. Per la naturale tendenza dell’ uomo a trarre piacere dal fatto di piacere agli altri,           ( Ethica, III, XXIX, Scolio“), un  circolo virtuoso si instaura dove sia vigente Cortesia, o Humanitas, ( Ethica, III, XXIX; Scolio), ogni qualvolta ci fa felici di essere  lodati e amati dalle persone che amiamo, per  la felicità stessa che origina in loro ciò che di favorevole, alla vocazione della loro natura, abbiamo compiuto a loro vantaggio. In queste circostanze l’amore e la gioia  reciproca sono pertanto la felicità di  un incremento reciproco della nostra potenza  di conoscere e di agire, e buona è  tale Gloria e la sua ricerca.       

E’ questa la dinamica deterministica virtuosa del retto uso della Gloria a cui Spinoza invita nello Scolio della Proposizione X del libro V dell’Ethica, quando elabora i principi di un retto metodo di vivere, da memorizzare e mettere in pratica, finché non si abbia una conoscenza perfetta degli affetti della natura umana, ossia dei modi in cui la nostra  potenza di agire  è incrementata o diminuita dalle cause esterne che agiscono su di essa.

La Cupidità di piacere agli uomini è allora la Modestia della Moralità, o altrimenti a dirsi della Generosità, ( Ethica, III, LIX, Scolio),  l’anelito di fare il nostro bene  facendo il bene altrui (Ethica IV, XXXVII, Scolio), così  unendo a se gli altri uomini in amicizia.

 L’uomo che è animato da tale anelito alla Gloria è virtuoso perché cerca innanzitutto l’Amore degli altri  per il bene che reca loro, e non è mosso principalmente dall’aspirazione “di suscitare la loro ammirazione, affinchè una dottrina porti il suo nome, in generale, di dare alcun motivo di Invidia” ( Ethica,IV, Appendice, capitolo XXV).

In unità di amicizia,  la Gloria di questo mondo, è la modestia della Humanitas cui è immanente l’anelito allo scopo più alto, che per Spinoza è di godere insieme con quanti più uomini è possibile del sommo bene. Tale sommo bene è l’altro ordine di Gloria dell’Ethica di Spinoza,  la Gloria di Dio dei testi delle Scritture. Essa va reinterpretata secondo la scienza di Dio di Spinoza per la quale la Divinità è inseparabile dalla Natura,  e dunque da noi uomini, di cui è  causa, principio e fondamento, per cui ne dipendiamo continuamente per la nostra essenza ed esistenza.  La Gloria di Dio ci fa pertanto di sé partecipi quando ci eleviamo alla nostra più alta conoscenza, la conoscenza intellettuale  di Dio come causa della nostra natura, che di Dio ingenera un Amore costante ed eterno. E’ la nostra salvezza e  libertà raggiunte nell’Amor Dei Intellectualis, in cui, per mezzo della Mente, è Dio medesimo, in noi al fondo,  che volgendosi a se stesso  come nostra causa, ama se stesso di Amore infinito, al contempo in cui essendo in noi ed essendo per causa nostra che si ama, ci ama del medesimo infinito Amore.  L’Amore di sé dell’iniziale Soddisfazione Interiore  della nostra Gloria terrena, si rivela, così perfezionandosi,  una parte dello stesso Amore di sé di Dio,  ch’è la stessa beatitudine della Gloria divina di cui parlano le Scritture.

Ma lungo l’itinerarium mentis ad Deum  in cui Spinoza ci insegna “come l'uom si eterna” nella sua vera Gloria, prima che tale perfezionamento trovi la teoreticizzazione del suo compimento nel libro V dell Ethica, egli ci viene invece ammaestrando come l’uom si perde nella VanaGloria.

 

Infatti ciò che può farci più attivi e potenti, e che può rendere la nostra mente più capace di conoscere, è ciò stesso che può renderci passivi, e ridurci nelle forme estreme di impotenza.( Ethica V, IV, Scolio). Pertanto la ricerca della Gloria degli uomini  che può elevarci fino alla Gloria di Dio, fino ad eternarci nell’Amor dei intellectualis, in cui la nostra felicità diventa beatitudine, ed è la beatitudine medesima di Dio, dell’Amore di sé divino che in noi si invera, (di cui ci facciamo espressione nell’amore di cui l’ amiamo e in cui egli si ama come nostra causa), se tale aspirazione di Gloria si fa una letizia eccessiva o ci depotenzia nelle passioni delle nostre tristezze, può invece asservirci alle forme estreme di follia della mente che sono gli opposti, spesso solo apparenti, della Superbia dell’Ambizioso o dell’Abiezione di chi di sé si vergogna intensamente, con l’aggravante, rileva Spinoza, che benché  l’Ambizione sia una specie di autentico delirio, come l’Avarizia, o la Libidine, non  appare tale agli uomini, che non l’annoverano tra le loro malattie ( Ethica, IV, XLIV, Scolio, Ethica III, XXVI, Scolio).

Tale VanaGloria, coltivata dall'educazione stessa, “giacché i genitori sono soliti spronare i figli alla virtù mediante il solo stimolo dell’Onore e dell’Invidia” (Ethica III, 55, Scolio),  inizia ad insinuarsi come si fa eccessiva  la Soddisfazione interiore che originano le lodi degli altri, e quando, ad originarla, non è la Cupidità di piacere agli uomini della Modestia dell’Onestà che è Humanitas, o Cortesia, che  aspira  all’amore degli altri uomini perché ne causa il bene, ma  (è) la Cupidità di piacere agli uomini, e di esserne lodati,  a causa del fare od omettere cose a danno proprio e al contempo altrui (Ethica III, XXIX, Scolio),  pur di piacere in particolare  alla moltitudine superstiziosa del volgo, come rileva Spinoza a più riprese  nell’ Ethica, secondo la lunghezza d’onda della critica del potere teologico politico che  ispira il suo grande Trattato Teologico-Politico (Ethica IV, LVIII, Scolio). Il volgo è infatti incostante nei suoi umori, e l’Ambizioso, se vuole conservare la sua buona reputazione nell’opinione dellle moltitudini, deve assecondarne la mutevolezza continua, in competizione accanita con gli altri che ne contendono a lui i favori, e “ da ciò nasce un’enorme sete di opprimersi a vicenda in qualunque modo, e chi alla fine riesce vincitore, si Gloria d’aver più nociuto agli altri che d’aver giovato a se stesso. Questa Gloria, dunque, ossia questa soddisfazione è veramente vana, perché inconsistente”. Il Teologo o Politico che intende soddisfare la sua Ambizione conformandosi al volgo, porta alle sue estreme conseguenze la nocività distruttiva ed autodistruttiva della VanaGloria, vanificante il bene proprio ed altrui, poichè finisce per trarre soddisfazione dalla felicità smodata di avere portato alla disfatta il nemico, nel contendersi i favori delle moltitudini, anzichè, generosamente, dall’avere fatto il bene degli altri assecondando il proprio. L’ Ambizioso, altrimenti, secondo l’appetito comune a noi tutti  (Scolio della Proposizione XXXI, Terza Parte dell’Ethica), che gli altri vivano secondo il proprio modo di sentire, appetisce la lode degli altri per la contentezza che costoro trarrebbero dal conformarsi a lui,  solo che non essendo guidato dalla ragione, vorrà che si conformino a ciò che non è  meno dannoso e molesto a se stesso che  agli altri. ( Scolio a Ethica V, IV, o , differentemente, Ethica, III, XXXI, Scolio, ove tale Aspirazione  univocamente è sempre Ambizione, di cui la stessa Modestia  altrove è una manifestazione misurata ( Ethica, IV, Definizione degli affetti XLVIII, Spiegazione).

L’Ambizioso, o Vanaglorioso, crede in tal caso di suscitare un piacere che è tale soltanto nel suo immaginario, mentre reca agli altri esclusivamente danno, e per trarne ancora più soddisfazione, insisterà  ancora di più, rendendosi ancora più nocivo e molesto (Ethica.III, XXIX., Scolio)

L’Ambizioso, o Superbo, persevera così facendo, perché presume di essere più di quello che non  è (Def XXXVII ), sopravvalutando se stesso al tempo stesso in cui svaluta gli altri. Per rinforzare la sua presunzione, a dispetto di ogni evidenza si circonderà di parassiti o adulatori ( con quale garbo, va detto,  Spinoza ne omette la definizione perché ritiene che siano finanche troppo noti), mentre rifuggirà gli uomini generosi e la loro sincerità (  Ethica, IV, LVII). Egli “ si compiace solo della presenza di coloro che assecondano il suo animo impotente e che da stolto lo rendono pazzo”.(ibidem)

La sua esaltazione è  tale,  allora, che diventa una autentica forma di delirio, per cui l’uomo sogna ad occhi aperti di poter fare tutte le cose che egli compie solo in immaginazione ( Ethica, XXVI, Scolio).

L’ Ambizione,- ossia , com’è definita altrimenti, la Cupidità immoderata di Gloria, - essendo una Letizia eccessiva, sfrenata, come tale è più che mai difficile da contrastare per chi ne è affetto, perché alimenta tutte le altre sue affezioni. A proposito, Spinoza cita Cicerone, per affermare che i migliori sono più degli altri guidati dalla Gloria. E ne trae la notazione di come gli stessi filosofi mettono il loro nome sui libri che scrivono sul disprezzo della Gloria, smentendosi nel loro biasimo all’atto stesso di intestare il libro su tale disprezzo( Ethica III, Definizione 44 degli Affetti), come fanno innumerevoli maestri odierni di saggezza spirituale,- se mi è dato di aggiornare la disamina di Spinoza-, che raccolgono fama, ricchezza e successo con l’insegnamento ai propri discepoli di ridursi al fallimento integrale, fino a non essere più nemmeno qualcuno in grado di soffrire.

Ma a vociferare contro la Gloria, sono anche gli Ambiziosi che sono impotenti a conseguirla, disperandone essi diventano Iracondi, e presumono di apparire sapienti quanto più criticano l’abuso di Gloria e la vanità del mondo.

Il disprezzo della Gloria di questo mondo contraddistingue anche gli animi deboli degli Abietti, la cui Vergogna di sé dipende dal sentimento del disprezzo che gli  altri nutrirebbero nei loro confronti, per cui tengono conto di se stessi meno del giusto. Ma secondo l’analisi di Spinoza, tale senso infimo di sé è sempre relazionale, può infatti dipendere dal fatto che l’Abietto immagina, a causa della sua debolezza,  “ di essere disprezzato da tutti, e ciò mentre gli altri a nulla pensano meno che a disprezzarlo” ( Ethica, III, Definizione 28 degli Affetti), o altrimenti può dipendere  dal fatto che egli svaluta se stesso perché sopravvaluta gli altri, che il senso della sua impotenza nasce da un’eccessiva stima  degli altri,  in quanto “ giudica la propria impotenza dalla potenza, ossia dalla virtù degli altri” ( Ethica IV, LVII, Scolio).

Ecco perché la sua tristezza trae conforto dal potere immaginare che siano viziosi anche coloro che stima eccessivamente, “ donde è nato quel proverbio: è un sollievo per i miseri avere dei compagni di sventura”(ibidem).

Nessuno è più incline all’Invidia  degli Abietti, secondo Spinoza,  al punto che suppone nell’Ethica che l’estrema Abiezione spesso sia più apparente che reale, e che coloro che sono creduti estremamente Abietti siano di fatto estremamente Ambiziosi ( Ethica, III, XXIX, Spiegazione), o che Abietto e Superbo siano ravvicinabilissimi e ravvicinatissimi dalla comune Invidia, benché le loro passioni siano l’una contraria all’altra, la Superbia essendo una felicità eccessiva e l’Abiezione una tristezza estrema.

La VanaGloria dell’Invidioso è l’ estremo dell’insocievolezza, perchè trae soddisfazione solo dalla mancata condivisione di ciò che vale e che giova, dal  fatto che l’Invidioso possa sentirsi superiore ai propri pari per qualcosa in sè di singolare, che nega degli altri. Egli può salvaguardare intatto tale senso di superiorità, finchè gli è  dato di godere della debolezza dei suoi pari, mentre lo indebolisce ogni constatazione dei loro pregi,  sicchè, arguisce Spinoza,egli si sforzerà di allontanare questa Tristezza, sia interpretando malamente le azioni dei suoi pari, sia abbellendo le sue, per quanto può” ( Ethica, III, LIV Scolio). L’eccesso di affezioni liete, superiori alla nostra potenza, ingenera nella Mente un sovrappiù di immagini, che cominciano pertanto a confondersi. La letizia eccessiva dell’Ambizioso che è al tempo stesso Invidioso, in luogo delle nozioni comuni delle proprietà comuni delle cose, su cui si fonda la conoscenza intellettuale, origina allora le astrazioni immaginative dei Termini Trascendentali, come Ente, Cosa, eccetera, e le Idee Universali come Uomo, Cavallo, Cane ( Etica II, XL, 1; De Intellectus Emendatione LII), Si tratta di immagini-modello  generali,  assunte a forme archetipiche normative delle cose, che si formano a seconda delle disposizioni passive differenti del proprio Corpo, e negli Ambiziosi che per di più sono Invidiosi, diventano  le idee stesse che scatenano gli antagonismi interumani e le controversie  dei filosofi, perchè costoro vogliono di conseguenza piacere,  essere amati, creduti ed onorati dagli altri, proprio universalizzando in tali idee immaginarie di uomo e tentando di imporre conformisticamente agli altri, le affezioni che più li differenziano e li singolarizzano, rendendoli più contrari  gli uni agli altri.

 

 

Ponendo a raffronto il Superbo e l’Abietto, Spinoza rimarca che mentre il Superbo loda e Gloria se stesso, disprezzando gli altri, e “ non racconta di sè se non le proprie virtù, e degli altri se non i vizi, e vuole essere preferito a tutti, l’Abietto riserva lode e Gloria alla propria Abiezione”, ossia, - se ne ricapitoliamo quelle che secondo Spinoza ne sono le manifestazioni, all’essere egli“ l’umile che arrossisce assai spesso, che confessa i suoi vizi e racconta le virtù degli altri, che cede il passo a tutti, e che infine, cammina a capo basso e trascura di ornarsi” e “ per eccessiva paura della vergogna non osa ciò che osano altri suoi pari”( Ethica, III, Definizione degli Affetti, XXIX, XXVIII).

Solo l’immaginazione vergognosa di sé dell’Abbietto, in conformità totale a  ciò che immagina che gli altri pensino di lui, o che gli altri siano a differenza della sua debolezza, per Spinoza può indurre l’uomo a tali forme di Lode e di Gloria di sé, proprio per ciò che egli è nei propri stati di estrema impotenza e di tristezza, perchè la natura umana in sé, “si ribella” contro tali stati di Umiltà e  Abiezione , nessuno, infatti “ per odio di sé , tiene conto di se stesso meno del giusto, in quanto immagina di non potere questo e quello”, non fosse per la  idea di sé che formiamo in rapporto a ciò che immaginiamo che gli altri pensino di noi,  o che più di noi siano capaci di fare o di essere.

Di Spinoza è talmente consequenzialmente impietosa e inesorabile la considerazione della natura umana a riguardo, che a tal punto sente l’esigenza di avvertire i lettori che sta considerando gli affetti umani, e le loro proprietà, alla stessa stregua delle cose naturali, che dunque desume  le conseguenze di ogni nostra tristezza o letizia, come “ dalla natura del triangolo segue che i suoi tre angoli sono uguali a due retti”, e sente l’urgenza di rammentare loro che il solo criterio di valore che l’ orienta è l’utilità umana ( Ethica IV, LVII, Scolio). Ed  è secondo tale criterio,  in ragione della nostra convenienza ad essere utili l’uno all’altro, potenziandoci a vicenda, che Spinoza è critico della Vanagloria quanto lo  è del disprezzo della Gloria umana,  dato che l’utile reciproco richiede lo sforzo, soprattutto, di osservare le azioni degli uomini più per correggerle che per censurarle, al contrario di ciò che fanno gli Abietti.

 Occorre considerare infatti le virtù più che i vizi umani, se il nostro reale intento è di lasciarci guidare dalla ragione nel governo dei nostri affetti ed appetiti, grazie al solo amore della libertà. Solo se procederemo in tal senso, infatti, è alle virtù e alle loro cause che guarderemo,  per godere della loro conoscenza e della vita in conformità ad esse, più di quanto non ci compiaceremo di considerare i vizi degli uomini,  per godere di quella falsa specie di libertà che consiste nell’abbassare gli uomini” hominesque obtrectare” per elevarci a loro danno.

(Ethica V, 10, Scolio).

Fine

 

 

Altre considerazioni spinoziane in tema di Gloria

 

Ho così  raccordato, nella loro dinamica, gli Affetti di gioia e di tristezza che originano la ricerca della Gloria umana e la Vanagloria, e la cui soddisfazione interiore trova la sua perfezione nell’Amor Dei intellectualis.

I teologi delle varie religioni per assoggettare ai cupi sogni di Gloria del  proprio potere teologico- politico le moltitudini del volgo, devono assecondare le manifestazione di Speranza, di Paura, di Umiltà, di Pentimento, della Superstizione del medesimo volgo, cosi terribile se non ha paura “ terret vulgus, nisi metuat”, asserisce Spinoza citando Tacito. A sua volta la moltitudine del volgo asseconda le ambizioni di Gloria del clero finchè ne può essere alimentata la credulità che i teologi, e i loro “predikanten”, siano depositari della rivelazione diretta di Dio in parole e opere. Essa si manifesterebbe nelle Scritture ritenute Sacre, che in ogni loro lettera  sarebbero la parola di Dio, di cui tali pastori e guide siarrogano di essere i soli legittimi interpreti.  Le altre principali manifestazioni di Dio assoggettanti sono i miracoli, compiuti  contro natura dalla mano immediata di Dio, e che i religiosi certifichino come veramente accaduti, o altrimenti sono le loro virtù profetiche, o la loro ispirazione divina grazie ad un  presunto lume soprannaturale. E’ per affermare la libertà di pensiero minacciata dalle autorità dogmatiche  e dai loro sostenitori politici nella libera Repubblica d’Olanda dei suoi tempi, che Spinoza scrisse  il Trattato Teologico –Politico.

 

 

Come egli confessò  nella prefazione al  De intellectus Emendatione, debole era il lui l’attaccamento alla Gloria terrena, che pure anima a suo giudizio i migliori spiriti, quanto intenso era l’anelito alla Gloria biblica dell’Amor Dei Intellectualis. Avrebbe potuto altrimenti affrontare l’oltraggio recato dai  poteri teologico-politici e dagli uomini del tempo alla sua ricerca filosofica ed alla sua persona? Disebraicizzato dall’herem della scomunica inflittagli dalla Comunità ebraica di Amsterdam, costretto a differenza di coloro di cui disse che ripongono il proprio nome nella copertina delle opere in cui disprezzano la Gloria, ad attribuire un’identità falsa all’autore del proprio Trattato Teologico-Politico, per evitare la tortura e il carcere, o il patibolo,  messo al bando degli uomini con la sua opera, quando si scoprì che ne era l’autore, costretto a non dare mai alla luce in vita la propria Ethica somma; essendo egli rivoluzionario ed empio, perchè era il fautore intransigente e coerente  della più onesta vita morale, votata alla libertà rischiarata dalla luce della ragione, e insieme da una religione ispirata dai soli principi fraterni di giustizia e carità.

 

  Dalla mia tesi

VIII. Passioni.  Le Letizie eccessive

 

Il tipo ulteriore di Passioni è dato dalle Gioie immoderate. Se una o più parti del Corpo, come della Mente, sono affette più delle altre da dei corpi esterni e dalle loro idee, si  determina una Gioia eccessiva o Titillatio del Corpo. la cui potenza, essendo più forte di quella degli altri atti del Corpo e della Mente, si fissa tenacemente, impedendo al Corpo di essere affetto nei moltissimi altri modi che non consentono alla Mente di concepire adeguatamente ( Etica IV, 43, 39).

   L’Amore e la Cupidità eccessive che ne derivano sussumono sotto di sé la Mente ed il Corpo, fissando la natura dell’ uomo nella considerazione di u n solo oggetto e nell’ attaccamento ad un solo affetto.

E’ il caso dell’Avarizia, dell’ Ambizione, della Libidine, della ricerca smisurata ed esclusiva, fine a se stessa, di onori, ricchezze, piaceri. ( Etica, IV, 43, 44).

   Nella Titillatio le forze  esterne non favoriscono lo sviluppo della nostra potenza assoluta di agire, la quale soltanto ci consente di sussumere, sotto le sole leggi della nostra natura, gli stessi affetti esterni che ne hanno assecondato l’affermazione.

   Potenziando eccessivamente una o parecchie parti soltanto del nostro Corpo, queste Gioie o Letizie passive impediscono le altre azioni del Corpo e le percezioni adeguate della mente, determinando la nostra forza ad esprimere la potenza prevalente delle cose esterne.

“ Strumento passivo delle cause esterne che l’utilizano per realizzare i propri effetti, l’uomo è forte e cionostante impotente”, asserisce a commento Mugnier Pollet ( Mugnier Pollet, 1976:97).

L’eccesso di affezioni liete, superiori alla nostra potenza, ingenera nella Mente un sovrappiù di immagini, che cominciano pertanto a confondersi. La letizia eccessiva dell’Ambizioso che è al tempo stesso Invidioso, in luogo delle nozioni comuni delle proprietà comuni delle cose, su cui si fonda la conoscenza intellettuale, origina allora le astrazioni immaginative dei Termini Trascendentali, come Ente, Cosa, eccetera, e le Idee Universali come Uomo, Cavallo, Cane ( Etica II, XL, 1; De Intellectus Emendatione LII), Si tratta di immagini-modello  generali,  assunte a forme archetipiche normative delle cose, che si formano a seconda delle disposizioni passive differenti del proprio Corpo, le quali negli Ambiziosi che per di più sono Invidiosi, diventano  le idee stesse che scatenano gli antagonismi interumani e le controversie  dei filosofi, perchè vogliono piacere,  essere amati, creduti ed onorati dagli altri, proprio universalizzando in tali idee immaginarie e tentando di imporre conformisticamente agli altri, le affezioni che più li differenziano e li singolarizzano, rendendoli più contrari  gli uni agli altri.

   L’eccesso di un’affezione parziale di Gioia, superiore alla nostra potenza, implica nella Mente un eccesso di immagini rispetto alla sua potenza immaginativa, che cominciano pertanto a confondersi .Soprattutto nelle Letizie eccessive , in luogo delle nozioni comuni delle proprietà comuni degli enti, hanno così origine le astrazioni immaginative dei Termini Trascendentali, come Ente, Cosa, eccetera, e le Idee Universali come Uomo, Cavallo, Cane ( Etica II, 40, 1; De Intellectus Emendatione 42).

   Si tratta di immagini-modello  generali,  assunte a forme archetipiche normative delle cose, che da ciascuno sono formate a seconda delle disposizioni passive differenti del proprio Corpo, le quali sono le idee stesse che scatenano gli antagonismi interumani e le controversie  dei filosofi, quando vogliamo essere amati, creduti ed onorati dagli altri, proprio in ciò in cui più le affezioni più ci differenziano e ci singolarizzano, rendendoci più contrari  gli uni agli altri.

   Le principali Sollecitazioni eccessive definite da  Spinoza sono la Stima eccessiva, la  Superbia, che è una forma di Stima eccessiva, l’Ambizione, la, la cieca Audacia,  l’ Ingordigia, l’Ubriachezza, l’Avarizia e la Libidine.

  La Superbia è la Stima eccessiva di se stessi in chi si ritiene superiore agli altri solo perché li considera meno del giusto( Etica III, Definizione 28 degli Affetti; Etica IV,  57). E’ pertanto il contrario della Umiltà.

    L’Ambizione è invece l’eccesso  della stessa modificazione delle Cupidità che è costitutiva della nostra socialità  individuale,  è infatti la modificazione immoderata dell’ Appetito di una cosa  che si genera in noi per imitazione degli Affetti dei nostri simili ( Etica III, 27).

   L’immaginazione di un  affetto di un  Corpo esterno simile al nostro esprime infatti un’affezione del nostro corpo che è simile a quest’affetto, come è possibile rilevare già nel transitivismo del comportamento infantile:

“ Sperimentiamo, infatti, che i bambini, il cui corpo si trova continuamente come in equilibrio, ridono e piangono solo perché vedono ridere o piangere gli altri; e tutto ciò, inoltre, che vedono fare ad  altri , subito desiderano imitarlo, e infine desiderano per sé tutto ciò di cui immaginano che altri si dilettino; e ciò perché le immagini delle cose sono, come abbiamo detto, le affezioni del Corpo umano, cioè i modi in cui il Corpo umano è affetto dalle cause esterne ed è disposto a fare questo o quello ( Etica, III, 32, Scolio)”.

  Basta pertanto che noi immaginiamo l’ Amore o la Avversione di un nostro simile per una cosa, perché  anche noi amiamo questa cosa o l’abbiamo in odio.

E’ l’Emulazione questo semplice sforzo che compiamo per piacere ai nostri simili ( Etica, III, definizione 32).

Ma noi possiamo allietarci  ancora  di più a causa dell’ imitazione degli affetti di gioia nei quali i nostri simili, da noi sollecitati,  già ci emulano a loro volta, godendo della Gloria di essere elogiati ed amati da essi, come la causa  della loro Gioia ( Etica III, definizione 31 degli Affetti).

   L’ Ambizione è di conseguenza l’ulteriore sforzo immoderato della Cupidità  volto a che ciascuno approvi od abbia in odio ciò che noi emuliamo od irridiamo, allorché per esagerato o cieco amore di Gloria noi vogliamo essere approvati dai nostri simili, sottomettendoli proprio a quelle nostre passioni e a quei modelli universali che ne sono le idee, nei quali possiamo essere maggiormente contrari gli uni agli altri ( Etica, definizione 44 degli Affetti; Etica III, 31 ed Etica IV, 37, Scolio I).

Ma in sé, in quanto sia invece Appetito attivo, determinato prevalentemente dalle leggi della nostra natura, la stessa Cupidità di cui l’Ambizione  è un eccesso, ossia l’aspirazione che gli altri ci imitino nel nostro modo di sentire, può esprimere una volontà positiva di umanità e di concordia, costituendo la Cortesia o Modestia della Moralità ( Etica III, 29, Scolio; Etica III, definizione 43 degli Affetti).

Si deve infatti notare anzitutto che è uno solo e medesimo l’ Appetito per il quale l’ uomo è detto tanto attivo quanto  passivo. Per esempio, noi abbiamo mostrato che la natura umana è stata disposta in modo che ciascuno appetisca che gli altri vivano secondo il suo modo di sentire ( vedi lo Scolio  della Proposizione 31 della Terza parte); e questo Appetito in un uomo  che non è guidato dalla ragione è una passione che viene detta Ambizione e non differisce molto dalla Superbia; mentre, in un uomo che vive  secondo il dettame della ragione, è una azione, ossia una virtù, che si chiama Moralità ( Vedi lo Scolio I della Proposizione 37 della Quarta Parte e la Dimostrazione 2 della medesima Proposizione.) “ ( Etica, V, Proposizione IV, Scolio).

( Vedi Etica III, 32, Scolio***).

Mentre l’Ambizione è una volontà  del nostro conformismo passivo, è la Cupidità di essere approvati dagli altri assoggettandoli alle nostre stesse passioni , la Moralità è invece l’ambizione del nostro conformismo attivo, è la volontà di unire a sé gli altri in amicizia che in noi è dettata dall’ Onestà, ossia dall’ esigenza, immanente alla ragione,  di comunicare la propria conoscenza intellettuale, che è quanto per Spinoza promuove  la vera vita di relazioni interumane.

La Moralità è dunque la volontà di conformismo attivo dell’ uomo libero che” non si conforma  a nessuno se non a sé stesso” ( Etica IV, 66, Scolio), ed aspira all’ accordo con gli altri uomini in ciò in cui gli uomini, cercando al massimo per sé il proprio utile, vivono prevalentemente secondo le leggi della loro natura individuale e convengono al massimo tra loro, rendendosi di somma utilità gli uni  agli altri, nel godimento comune della vita relazionale, il cui sommo bene, la conoscenza adeguata dell’ essenza eterna ed infinita di Dio, è un bene che  suscita unanime concordia, poiché ”è comune a tutti gli  uomini e può essere posseduto da tutti gli uomini, in quanto sono della medesima natura” ( Etica, IV, 36, dimostrazione), un bene, che per imitazione virtuosa degli affetti di gioia che sono costituiti dall’ amore intellettuale di Dio comunicato agli altri uomini, affinché tutti ne godano, e tanto più ( per la proposizione 37 della III Parte) quanto egli fruirà di questo bene…( Etica IV, 37, dimostrazione 1[m1] [m1]). [1][1]


 


[1][1] Confronta lo Scolio  I alla Proposizione 37 della Parte Quarta dell’ Etica

SCHOLIUM I. Qui ex solo affectu conatur, ut reliqui ament quod ipse amat, et ut reliqui ex suo ingenio vivant, solo impetu agit, et ideo odiosus est, praecipue iis, quibus alia placent, quique propterea etiam student et eodem impetu conantur, ut reliqui contra ex ipsorum ingenio vivant. Deinde quoniam summum, quod homines ex affectu appetunt, bonum saepe tale est, ut unus tantum eius possit esse compos, hinc fit, ut qui amant, mente sibi non constent, et dum laudes rei, quam amant, narrare gaudent, timeant credi. At qui reliquos conatur ratione ducere, non impetu, sed humaniter et benigne agit et sibi mente maxime constat. Porro quicquid cupimus et agimus, cuius causa sumus, quatenus Dei habemus ideam, sive quatenus Deum cognoscimus, ad  r e l i g i o n e m  refero. Cupiditatem autem bene faciendi, quae eo ingeneratur, quod ex rationis ductu vivimus,  p i e t a t e m  voco. Cupiditatem deinde, qua homo, qui ex ductu rationis vivit, tenetur ut reliquos sibi amicitia iungat,  h o n e s t a t e m  voco, et id  h o n e s t u m , quod homines, qui ex ductu rationis vivunt, laudant, et id contra  t u r p e , quod conciliandae amicitiae repugnat. Praeter haec civitatis etiam quaenam sint fundamenta ostendi. Differentia deinde inter veram virtutem et impotentiam facile ex supra dictis percipitur: nempe quod vera virtus nihil aliud sit, quam ex solo rationis ductu vivere; atque adeo impotentia in hoc solo consistit, quod homo a rebus, quae extra ipsum sunt, duci se patiatur et ab iis ad ea agendum determinetur, quae rerum externarum communis constitutio, non autem ea, quae ipsa ipsius natura in se sola considerata postulat. Atque haec illa sunt, quae in schol. prop. 18. huius partis demonstrare promisi, ex quibus apparet legem illam de non mactandis brutis magis vana superstitione et muliebri misericordia, quam sana ratione fundatam esse. Docet quidem ratio nostrum utile quaerendi necessitudinem cum hominibus iungere; sed non cum brutis aut rebus, quarum natura a natura humana est diversa, sed idem ius, quod illa in nos habent, nos in ea habere. Imo quia uniuscuiusque ius virtute seu potentia uniuscuiusque definitur, longe maius homines in bruta, quam haec in homines ius habent. Nec tamen nego bruta sentire, sed nego, quod propterea non liceat nostrae utilitati consulere et iisdem ad libitum uti; eademque tractare, prout nobis magis convenit; quandoquidem nobiscum natura non conveniunt et eorum affectus ab affectibus humanis sunt natura diversi. Vide schol. prop. 57. P. 3. Superest, ut explicem, quid iustum, quid iniustum, quid peccatum et quid denique meritum sit. Sed de his vide sequens scholium.

SCHOLIUM

 

Le foto
 

“Kallu?”

“Nothing...”

“Why, nothing.?”

“ What can I speak, che cosa ti posso ancora dire, dopo che ho visto Chandu con in mano le foto di Sumit...

Stando a quello che mi parso di intendere, con Ajay e Porti aveva messo le mani nelle fotografie ch'erano riposte nella mia stanza, e ognuno era uscito con i propri reperti..

Gli aveva chiesto di chi fossero quelle immagini, se fosse lui stesso, qualche anno prima...

“ Kallu, non significa niente, gli ho detto come mi sono ripreso,.

Lo so...”

E  allora stato possibile iniziare a poco a poco a parlare d’altro, delle fotografie di gruppo che avevano preso Poorti ed Ajay, in cui insieme a me e a Kailash, e ad Ashesh, con gli abiti intrisi di pioggia  erano al riparo della grotta del  grande Varaha  in Udaigyri, presso Vidisha.

Si è parlato come al solito del tempo, dei ricavi, di quanti sono i turisti, del fatto che quel giorno c’era stato troppo concorso  di folla per una festività, perché  la gente circolasse in tuk tuk..

“ Ti senti meglio, ora?”

Si era ripreso, e potevamo congedarci.

Ma io ho poi seguitato a vagare confuso con la testa tra le mani, la gola disseccata, prima che potessi trovare il bandolo, riordinare ogni cosa, lasciare la casa ed avviarmi alla stazione un’ora più tardi per essere da mia madre a Modena  prima che fosse già notte.

 

22 settembre 2013

 



 

IL LIMITE, L'ALTRO
Più che tra credenti o non credenti, disse il cardinal Martini, conta la differenza tra l’essere pensanti oppure no. Soggiungerei che non meno discriminante è la differenza tra chi, sia esso ateo o credente, riconosce il limite e l'Altro, e chi pensa invece di autorigenerarsi fondandosi sul proprio Io narcisistico, come se fosse l’ Io di Dio al fondo dell’anima , sia egli l’indignato antipolitico o il mistico monista, che credendo di fondersi in Dio si perde solo nel proprio Ego smisurato.

 7 ottobre 013





 

 

 

 

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